Vincenzo Nuzzo
La letteratura e il Fato

I seguaci di Faust

Alexandre Herculano, Adalbert von Chamisso, Mika Waltari: tre autori di romanzi “anacronistici” che analizzano la tragedia del rapporto tra uomo e destino (sulle tracce dell'anima che Faust vende a Satana)

Vorrei parlare di tre libri del tutto anacronistici, dei quali però due sono vecchi mentre uno è nuovo. Almeno relativamente. I due vecchi sono Eurico, o presbitero, di Alexandre Herculano, e La meravigliosa storia di Peter Schlemil, di Adalbert von Chamisso. Il nuovo è Gli amanti di Bisanzio, di Mika Waltari. I temi di questi libri sono non poco intrecciati e comunque dominati da un immaginario romantico che evidentemente non si è mai spento nemmeno oggi. C’è la vera e propria «psychomachia» ingaggiata con se stesso dall’eroe sacro, che in gran parte è poi anche faustiana (la svendita a Satana della propria ombra da parte di Schlemil). C’è l’eterna lotta tra Occidente ed Oriente. C’è l’amore che salva e nello stesso tempo perde. Ci si chiederà allora cosa mai possa interessare tutto questo al lettore moderno? Una sola cosa, direi, se proprio si vuole buttare nell’immondizia tutto questo, e cioè il confronto tragico dell’uomo con il proprio destino. C’è qualcosa di più moderno di questo, dopo che Nietzsche lo buttò sul tappeto?

Meno direttamente c’è qui poi anche il così prepotente ritornare attuale del romanzo storico. Ma, amici, c’è in questi libri anacronistici una tale profondità di saggezza che è davvero difficile capire come il moderno lettore preferisca leggere invece tutt’altro. Immergendosi così in una letteratura dove è d’obbligo la dissoluzione di qualunque coordinata di orientamento nel tessuto del kòsmos. E qui va incluso anche quel romanzo storico che è troppo calcolato e spregiudicato per poter essere davvero serio. Oggi la regola! Prima invece no!

Ma se è così è così, e non si può non prenderne atto. Ed allora parliamo solo del confronto con il destino.

Jean Ange, o Johannes Angelos (Waltari), è un curioso misto di asceta, guerriero e filosofo-metafisico dal sangue reale, la cui scelta è quella di andare a morire sulle mura di Costantinopoli all’alba di un’era in cui il Passato sta per morire per sempre facendo spazio al solo Futuro. Ed il nome che egli affibbia a quest’ultimo è più che chiaro: ‒ è “l’era della Bestia”. Ebbene il luogotenente della Bestia è qui chiaramente il Titano nella veste di tiranno travestito da Sultano islamico, cioè Mehmet II. Il quale ovviamente dell’Islam se ne strafotte altamente, dato che egli si sente un “figlio della Terra” e basta. Nietzsche e Cioran qui la fanno da padrone. L’incontro con il destino consiste per Jean nello smettere di fuggire dalla propria terra, nel ritornare ad essa, e perfino nel donarle il proprio sangue. E l’amore è qui per lui un’inattesa parentesi che accompagna, tra gioia e tormenti, il suo marciare verso la morte. Morte di angelo in forma d’uomo.

Eurico è il classico giovane romantico ferito a morte da un amore non corrisposto, e che per questo ha scelto la via del Chiostro. Che però vive egli malissimo, dato che il tarlo del male del mondo lo rode dentro, accompagnato insopportabilmente dall’umiliazione della sua nazione e della sua razza a causa dell’immoralità del potere alleata all’invasione araba della penisola iberica (da parte di Tariq). Finirà facendo scempio dei nemici come un Nero Cavaliere ignoto sul campo di battaglia di Auseba, dove egli non cerca altro che la morte. La vittoria però non verrà. Infine Eurico ritroverà l’amore. Ma troppo tardi per poterlo vivere. Il destino, già pienamente abbracciato, aveva già scavato in lui il solco indelebile della morte. Era ormai solo un sacerdote ed un guerriero, e non più Eurico, l’uomo.

Schlemil s’imbatte per caso in Satana (in verità uno scienziato illuminista e plutocrate), e si lascia abbindolare cedendo la sua ombra (in aggiunta alla sua anima) proprio come Faust per godere appieno delle varie forme di ricchezza del mondo. Ma naturalmente deve poi amaramente pentirsi della sua scelta. Perché con la ricchezza ed i piaceri cadono sulla sua testa anche innumerevoli sventure. Prima tra le quali è quella di non poter amare e lasciarsi amare dalla donna che il destino ha messo sulla sua strada. Potrà uscire da questo spaventoso vicolo cieco solo sprofondando nelle inflessibili richieste poste da un Fato terribile ma mai privo d’amore, e quindi rinunciando a tutto per abbracciare una vera povertà spirituale. E questa è una vera e propria morte scelta ed abbracciata. Ma è anche un autentico risveglio dal sonno delle apparenze.

Qual è il filo conduttore di tutto questo?

Secondo me è qualcosa che all’uomo moderno dovrebbe interessare moltissimo, e cioè il possibile valore della morte. Non se ne parla forse continuamente? Ebbene, tale valore va poi di pari passo con il prendere il destino davvero mortalmente sul serio, e cioè fino alle sue estreme conseguenze. Cosa che rovescia completamente l’ordinarietà naturale nella straordinarietà sovrannaturale. Tragica ma autentica al massimo grado. Tema che più platonico non potrebbe essere. Ne parlò in modo molto acuto Gregorio di Nissa (Sull’anima e sulla resurrezione), dimostrando che possiamo affrontare la morte (e perfino cercarla) perché siamo interiormente assolutamente certi che l’anima, separandosi dal corpo, non solo non morirà ma addirittura rigenererà un corpo davvero perfetto.

Vedo di nuovo intorno a me facce perplesse, fronti corrucciate e bocche amareggiate, sul punto di esprimere una severa disapprovazione. «Sappiamo già molto meglio di te», si dirà «che l’uomo è mortale. Ma questo è semmai un motivo più che sufficiente per negare l’esistenza di qualcosa come l’eternità!». Bene, molto bene. Ci sono oggi eserciti di professori universitari di filosofia, teologia, sociologia, psicologia e medicina, che si farebbero arrostire sulla graticola pur di negare tutto questo. Ma, miei cari amici, è forse servito a qualcosa tutto questa profusione a piene mani di «autenticità fattica»? Siamo forse più felici, più decisi a vivere, più decisi ad essere solidali con gli altri, più decisi a sperare, costruire e guardare avanti? Non direi proprio!

E quindi perché, se viviamo la morte con tanta convinzione e perfino protervia, ci dà così tanto fastidio che ne parlino apertamente poeti e metafisici, ma senza disperazione? Perché accettiamo che invece ne parlino solo i teologici, per poi doverci (com’è giusto che sia) farci beffe delle loro semplicistiche approssimazioni? Perché allora crocifiggiamo chi ci propone ancora una letteratura «seria» ‒ sì «seria», cioè né leziosa, né scaltra e calcolatrice, né minimalista, né nichilista, ovvero in senso letterale «mortalmente seria» ‒, una letteratura che ci faccia interrogare profondamente?

In vista però di un possibile risposta, invece che solo srotolando davanti a noi le multicolori stoffe del Nulla.

Ditemi, che ce ne facciamo mai dei così tanti guitti dell’orrore, dei metafisici della perdizione, dei poeti delle uova fritte e del bar accanto, dei cinici e freddi pianificatori di best-sellers, dei celebranti la morte in forma di disinibito divertimento, dei cronisti della rivoluzione permanente ecc. ecc.? Non è molto più fruttuoso, insomma, continuare a frugare incessantemente nei tesori di saggezza e sapienza della Cultura anacronistica?

Punto di domanda. Si resta aperti a qualunque risposta.

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