Leo Carlesimo
Un racconto inedito

La diga di Bagré

«A detta degli operai, Sebastien Ouedraogo era un manovale che vent’anni fa lavorava al progetto pilota che ha preceduto la costruzione della diga. Un piccolo cantiere di sondaggi condotto da un ingegnere francese con la passione dei fiumi africani»

Questo racconto è ambientato in Burkina Faso, tra la cittadina di Tenkodogo e il villaggio di Bagré. A Bagré, all’inizio degli anni ’90, fu costruita una diga sul fiume Volta, il cui scopo era irrigare un’ampia pianura oggi coltivata a riso. L’opera fu realizzata da un’impresa italiana. In occasione della ricorrenza islamica di Tabaski, tra gli operai italiani e africani della diga…

* * *

Si sveglia prima dell’alba, con quel ben noto saporaccio in bocca e il fiato spesso che fatica a farsi strada fino ai polmoni. Oltre le palpebre incollate, intravede la stanzetta d’hotel ancora immersa nella penombra, la porta a soffietto del bagno semiaperta, il riflesso dello specchio, la sagoma sfocata dell’armadio, il chiarore che filtra dalla finestrella. Dieci metri quadri sì e no, un letto a due piazze che ne occupa la metà, la valigia traboccante d’indumenti, puliti e sporchi, accatastati, la rete cigolante e il materasso di gommapiuma incollato alla schiena. Con passo barcollante, senz’accendere la luce, imbocca la porticina del bagno ed esamina le sue cose sparse sul piano dell’acquaio: spazzolino, dentifricio, limaunghie, pettine, rasoio. Tira l’interruttore a cordicella e si guarda di sfuggita nello specchio. Giorno di festa, si dice, non mi rado.

Si ficca sotto la doccia e lascia che l’acqua gli scorra addosso, senza preoccuparsi del lago che va formandosi sul pavimento a mattonelline azzurre e già straripa oltre la battuta della soglia, inondando la camera. Si guarda il ventre flaccido e cascante, il biancore della pelle ombreggiato di peluria bruna, le gambe livide. Volge la faccia verso il getto e rimane con gli occhi chiusi a sentire l’acqua che picchia sulla fronte, aprendo le labbra e succhiandone fiotti caldi attraverso i denti. Non dovrei berla, si dice, potrebbe essere infetta.

Ma invece beve. L’acqua ha un sapore amarognolo di ruggine e deposita una patina aspra sulla lingua e sul palato. Fuori dalla doccia s’avvolge nel ruvido panno di spugna e si sfrega forte la schiena, tendendo l’asciugamano tra l’incavo della spalla e l’anca, facendo arco col dorso. Si pettina i radi capelli, schiacciando le ciocche flosce e bagnate, che s’adattano alla forma del cranio, rivestendolo di una lustra pellicola nera. Passa la mano sul vetro appannato e si guarda nello specchio. Dimostra più dei suoi anni, ma non tanti, non tanti di più. Tutto sommato potrei essere ridotto molto peggio, si dice. Ha un paio di cicatrici sotto l’occhio sinistro e una narice un po’ più grossa dell’altra, la barba lunga d’un giorno, occhi scuri, profondi, cerchiati. Si spreme un foruncolo sulla tempia e si volta a destra e a sinistra, cercandone altri maturi. La faccia non è in uno dei suoi giorni peggiori, ma in bocca ha ancora quel saporaccio. Fa dei gargarismi d’acqua tiepida, lasciando ristagnare a lungo l’acqua contro l’epiglottide e stimolando la salivazione. Poi si lava i denti, sfregando forte dove gli pare che il sapore s’annidi. Picchia con l’unghia sugli incisivi. Tutti miei, si dice, mandando giù un pezzetto di dentifricio, come fa sempre per l’alito.

Tornato in camera si veste. Non cambia la camicia, le porta sempre due giorni prima di lasciarle al boy della lavanderia. Infila i pantaloni da lavoro e calza gli scarponi da cantiere, con le suole antinfortunio che fanno sudare i piedi. Stringe i lacci, facendoli girare attorno alla caviglia. Non ha mai capito perché li facciano sempre tanto lunghi. Non sono ancora le sei ed è già pronto.

Fuori comincia a schiarire. La strada è sterrata, polverosa, fiancheggiata d’acacie, deserta. Dalla parte di Garango, all’altezza del ponticello, si vedono arrivare delle donne. Indossano pagne logori e scoloriti, portano sulla testa ceste di frutta, catini di farina, involti di igname e cassava, uova, arachidi, gombò. Diverse hanno un bambino legato sulla schiena, altre portano i pagne fissati ai fianchi, il petto nudo. Seni cascanti, forme sfatte. Perlopiù sono vecchie e sfiorite, avranno almeno trent’anni e cinque-sei gravidanze alle spalle, ma in mezzo a loro c’è anche qualche ragazza. S’avviano in gruppo verso il centro del paese, sudate, impolverate, sporche, da prima dell’alba marciano nella brousse, provenienti da qualche villaggio dei dintorni. E’ giorno di mercato, a Tenkodogo, e chiunque abbia qualcosa da vendere o da comprare si dirige verso il centro del paese.

bagre-burkina-faso5Le donne lo guardano, fanno dei segni, una ancora abbastanza giovane gli passa accanto, dice qualcosa d’incomprensibile in mooré e gli sorride. Ma quella che attira la sua attenzione è un passo dietro, poco più di una bambina. Ha un corpo elastico, flessuoso, la pelle nerissima, liscia e tesa, il petto scoperto. Quando gli passa a tiro, Casson la ferma afferrandole il braccio. Porta una bacinella di metallo smaltato sulla testa, ha grandi occhi infantili, scuri e lustri, treccine rigide come stecchi che sbucano a raggera da sotto il panno avvolto sulla sommità del capo, a equilibrare il carico. Il viso magro un po’ allungato, braccia e gambe esilissime, un bel sorriso. Come ti chiami, eh, fa Casson. Con l’altra mano le accarezza il fianco. Lei ride, scuote la testa, non capisce il francese. Le altre donne lo guardano, gesticolano e ridono. Casson le tocca i capezzoli. Seni piccoli, acerbi. Ritti come chiodi, dice, uh! E fa un gesto, tira via bruscamente la mano, come si fosse scottato. Risate. La ragazzina ride anche lei, è vicinissima, Casson sente l’odore amarognolo della sua pelle madida di sudore. Quella pelle liscia, nerissima, a grana molto fine, che è un piacere accarezzare. Prendi, le fa, porgendole una moneta da cento franchi. Ci vediamo più tardi al Djamou. Passa al Djamou, capito? E indica l’albergo. La ragazzina fa cenno di sì col capo infilzato di treccine e continua a sorridere.

* * *

Tabaski, il giorno del montone, cade un lunedì di fine mese giusto a ridosso del sabato di paga. Tre giorni filati di festa in cantiere, molti operai ne approfittano per rientrare ai loro villaggi. Siamo nei pressi della cité ouvrière, la città operaia sorta a ridosso della sbarra, appena oltre l’antico villaggio di Bagré, e ormai molto più grande e più popolosa di questo. Un denso agglomerato di baracche di fango e lamiera, venute su come funghi da quando è cominciata la costruzione della diga. La cité sorge sulle pendici di un dosso a due-trecento metri dal fiume. Venendo da Tenkodogo, lungo la strada che collega Ouaga a Dapaong e al confine col Togo, si svolta a destra per una pista sterrata. C’è un rozzo cartello segnaletico, al bivio, con una scritta tracciata a mano che annuncia: ‘Fleuve Nakambé (Volta Blanche)’ rappresentato da due onde parallele malamente disegnate su un pezzo di tavola inchiodato a un palo. Corre per una quarantina di chilometri attraverso un paesaggio monotono: boscaglia, erbe alte, spettrali baobab, bestiame brado; nient’altro fino al dosso che sovrasta l’incisione del fiume, una modesta collina ben visibile nell’immensa e desolata pianura dell’alta valle del Nakambé.

Quando Casson imbocca l’ultimo tratto di pista, i camion della Compagnia irrompono sul piazzale e scaricano i primi gruppi di operai, gli smontanti dal turno di notte. Grossi semi-rimorchi da carico color verde scuro marchiati col logo della Compagnia, adattati alla bell’e meglio a trasporto del personale. Il cassone è stato coperto con una tettoia di lamiera, sul pianale sono fissate lunghe panche di legno, sul retro c’è una scaletta in ferro per salire. La gente, a Bagré, ha dato loro un nome, li chiama les taureaux.

A fine turno, nella luce ancora incerta del mattino, les taureaux sono grandi sagome scure e immobili sul piazzale deserto. Dieci alle sei, suona la sirena di fine turno e gli operai scendono dalla diga. S’affrettano in direzione dei camion, camminando sempre più svelti, e quando sono ormai in vista cominciano a correre. Si gareggia per conquistare il primo viaggio, chi non fa in tempo deve aspettare il secondo, o addirittura il terzo, e gli tocca star lì ancora un’ora.

Bagré Burkina Faso4Quand’arrivano a ridosso delle murate, scatta l’arrembaggio. Si lotta per accaparrarsi i posti a bordo, urla, spintoni, insulti. Semirimorchi colmi all’inverosimile s’avviano lentamente, sbuffando, braccia e gambe che spenzolano dalle fiancate, grovigli di membra umane avvinghiate alla scaletta d’accesso. Le taureau arrancando si mette in moto e gli ultimi ritardatari lo rincorrono, attaccandosi ai montanti del cassone, per puro miracolo non rimane schiacciato nessuno.

Ogni giorno la security interviene, cercando di impedire questi rischiosi assalti. E ogni giorno gli operai più giovani fanno a gara nel saltar dentro ai camion già in corsa, all’ultimo momento. Non solo per guadagnare mezz’ora di riposo. No, anche per esibirsi in quella che ormai è diventata una specie di sfida, una sorta di corrida africana. Con un’agilità e una scelta di tempo straordinari, giovani operai dai corpi elastici, dalla corsa elegante, affiancano il camion già lanciato, spiccano un balzo e s’attaccano ai montanti del cassone, lasciandosi trascinare in volo, sospesi; con una forza di braccia impressionante riescono a issarsi su, mentre il camion prende velocità, s’avvinghiano alla fiancata, si danno l’ultima spinta e scivolano oltre la murata… Queste performance d’acrobata e d’atleta non hanno applausi, qui sono routine quotidiana. E i ragazzini, a Bagré, imitano i grandi: all’ingresso dei camion rincorrono anch’essi les taureaux, gridando, incuranti della polvere che li avvolge e li nasconde alla vista, e a rischio d’essere investiti…

Nell’ex-aula scolastica un’intera parete dipinta di nero funge da lavagna. Resti di disegni infantili e mozziconi di parole scritte con grafia incerta sono ancora abbastanza riconoscibili. Scrivendo e disegnando, qua e là, il gesso ha graffiato la vernice e i segni non sono più venuti via. Restano tracce di coniugazioni verbali, parole incomplete sovrapposte a residui di figure umane, paesaggi infantili attraversati da frasi di cui si riesce a cogliere al più qualche sillaba. I bambini hanno scoperto questa proprietà della lavagna, che trattiene a caso una parte di quel che tracciano. Dipende forse dalla cattiva qualità del gesso, che contiene grumi più duri avvolti nella materia friabile. Su un lembo della lavagna compaiono veri e propri graffiti. A destra, verso la finestra sprangata, si riconosce una scena di villaggio, simile a quelle raffigurate nei batik.

L’aula abbandonata della scuola rurale è stata occupata dalla Compagnia, che vi ha insediato gli uffici provvisori del cantiere. Nell’edificio accanto, dove la scuola si è ritirata, banchi e panche sono deserti. È un grande stanzone col tetto in lamiera, finestre senza vetri chiuse da scuri in ferro, pavimento in cemento grezzo, tubi al neon appesi alle travi del soffitto, un piedistallo di tavole inchiodate con su una specie di cattedra dove le maitre de la cité ouvrière, il maestro, fa lezione ai figli degli operai. Vecchie grammatiche francesi, qualche libro d’aritmetica, un vocabolario senza copertina, un atlante scompaginato, un po’ di fogli sparsi su uno scaffale sono il materiale didattico dell’Ecole Primaire Sebastien Ouedraogo, come recita la scritta incisa nell’argilla secca del muro, sopra l’architrave.

bagre-burkina-faso2A detta degli operai, questo Sebastien Ouedraogo era un manovale che vent’anni fa lavorava al progetto pilota che ha preceduto la costruzione della diga. Un piccolo cantiere di sondaggi condotto da un ingegnere francese, un idrologo mezzo pioniere mezzo sognatore, con la passione dei fiumi africani. La prima idea della diga di Bagré è sua, suoi i descrittivi tecnici preliminari, le prime indagini da cui è nato il progetto dell’opera. Lavorò a Bagré per diversi anni, a quell’epoca, trivellando, campionando e ordinando dati, poi confluiti in un abbozzo di studio che via via, ampliato e approfondito da squadre di tecnici più robuste e organizzate, ha generato il progetto attuale. Si può dire che quest’ingegnere francese sia il padre della diga di Bagré, e Sebastien Ouedraogo fu per qualche anno uno dei suoi operai. Rimase schiacciato da un traliccio venuto giù mentre trivellava e alla sua memoria è intitolata la scuola rurale di Bagré.

Oggi è festa e la scuola è chiusa. Ma ci sono ugualmente in giro un po’ di ragazzini, e il maestro che vive in una capanna giusto accanto alla baracca delle aule li raduna sul piazzale e li fa cantare. Tutti seri, schierati sugli attenti sotto l’asta della bandiera, i più piccoli davanti e i più grandi dietro, magri come chiodi, perlopiù scalzi, con le loro voci stridule e discordanti intonano l’inno nazionale. Il maestro fatica a imporre un po’ d’armonia al loro canto stonato.

Casson sta ad ascoltarli, la sigaretta penzoloni all’angolo della bocca, la mani affondate nelle tasche consunte dei calzoni. Dita callose, unghie cortissime che passano attraverso i buchi del tessuto e accarezzano la peluria ispida delle cosce e la pelle accapponata. Il canto finisce, i ragazzini si disperdono.

* * *

Allo schiocco del catenaccio, la folla comprime i più vicini contro il gabbiotto di lamiera. Cigolio del battente, lo sportelletto s’apre e sale dalla calca un muggito crescente. Tute sdrucite, bluse sudicie e impolverate, pettorine fosforescenti e la plastica dura dei caschi anti-infortunio. Operai di tutti i settori – meccanici e carpentieri, operatori di macchine e minatori – assiepati davanti alla baracchetta delle paghe.

Lo sportello s’apre, compare il lungo viso equino dell’impiegato che distribuisce le buste, e la security fatica a contenere la pressione della folla che prende d’assalto la baracca. In prima fila c’è un ragazzo alto, magro, giovanissimo, una maglia scura mezzo strappata con la scritta di qualche università americana, un paio di calzoni rimboccati al ginocchio tenuti su con un pezzo di spago, un berretto da baseball di tessuto rosso con la visiera rivolta all’indietro, ciabatte infradito ai piedi, viso smunto ma dalle ossa massicce e forti, zigomi pronunciati, labbra ed orecchie enormi, occhi sgranati, lustri, scurissimi. È Baktyano, il più giovane dei suoi operai.

bagre-burkina-fasoHa conquistato uno dei primi posti in fila e lo difende accanitamente – schiena arcuata, braccia e gambe allargate, piedi puntati e bacino in fuori – dagli assalti degli altri. Ride, urla, sgomita, combatte, è felice: è il suo primo giorno di paga. Casson non ricorda nemmeno più perché l’ha assunto, meno di un mese fa, deve averglielo raccomandato il cuoco, quel pancione che al bar del club ora gli tiene sempre da parte un paio di bicchierini, la sua razione quotidiana di gratitudine, spillata dalla bottiglia che ogni sera la ditta offre agli operai italiani dopo il lavoro.

Baktyano lo vede, le labbra s’allargano in un sorriso riconoscente, quasi devoto. Un gesto di rispetto: capo giù tre volte, sulle mani giunte. Esile com’è, tutto nervi, tende i muscoli per reggere la spinta della calca. Dietro di lui, s’agita una selva di mani protese. Sul piazzale c’è un vocio da mercato, la folla s’estende già fino alla sbarra. Alcuni ubriachi cominciano a litigare. I camion arrivano a ripetizione sul piazzale, sollevando turbini di polvere. Dai cassoni saltano giù, a frotte, quelli che lavorano al di là del fiume e sono in ritardo per la paga. S’ammassano contro il casotto, baruffando per farsi largo. Inizia la distribuzione delle buste.

* * *

Appena arraffata la sua, in due salti Baktyano è fuori dalla mischia, accanto a Casson. Raggiante, conta i soldi nell’involto di carta. Poi ficca tutto nella tasca dei calzoni luridi e sorride, in estasi per l’incontro col patron… vuole assolutamente offrirgli da bere. Casson rifiuta, si schermisce, è troppo presto, non sono neanche le sette del mattino… Ma Baktyano insiste, non sente ragioni, un bicchierino ci vuole, patron, la mia prima paga va bagnata…

Non al banchetto di mescita, però. Ci passano davanti senza rallentare, Baktyano lancia uno sguardo sprezzante al mercante che, deluso, mostra il suo liquore, versandone due dita dentro uno dei fondi segati di bottiglie di plastica che fungono da bicchiere. Il bar è un’asse di legno appoggiata su due grosse pietre, sollevata un palmo da terra. Sull’asse, allineate, quattro o cinque bottiglie scompagnate – vuoti di J&B, di Johnnie Walker, di coca-cola – riempite di dolo, il loro liquore, un liquido giallognolo dall’aspetto torbido, ottenuto dal miglio fermentato. Gruppi di operai si fermano all’asse, si fanno mescere uno, due bicchierini, spendono lì i primi soldi. Ma non è questo il posto dove Baktyano intende portare il suo patron. Ci vuol altro, alla cité ouvrière

C’è un maquis, ai piedi della collina, uno dei primi bar che hanno aperto nei pressi della cité. Un recinto di stuoie, non più di tre metri per quattro, pali di legno scortecciato che sorreggono una tettoia di paglia, pavimento in terra battuta con su un paio di tavoli fatti coi murali da cantiere, sedie di vimini intrecciati, qualche cassa di birra, un frigo, una radio a pile con dentro una cassetta di musica africana.

Qui hanno persino del whisky, patron, fa Baktyano orgoglioso. È il bar di lusso della cité, lui ne va fiero, è un onore invitarci il suo patron.

D’accordo, ma niente whisky a quest’ora, fa Casson, troppo presto, mi farò una birra… Veramente, non dovrebbe bere neanche quella, tutte le volte che torna a casa il dottore gli dà una ripassata, rompendogli le balle col fegato malridotto e l’ulcera e le coronarie e tutto il resto… Ma che ne sa, il dottore, come sarebbe, per uno come Casson, un mondo senza?

Solo che il frigo è ancora spento e la birra è calda. Il barman è un ometto piccolo e mingherlino, con la barba sale e pepe e due occhietti fondi, vivaci, le labbra screpolate e tumefatte mezzo aperte su un sorriso sdentato. Niente birra, patron, dice, però se vuoi ho del pastis… E gli occhi svagati di Casson si asciugano, le pupille si contraggono, si fanno strette e attente. Ma davvero, del pastis… L’ometto s’arrampica su un mucchio di casse impilate, arraffa qualcosa in cima a uno scaffale, salta agilmente giù con la bottiglia in mano, Ricard, c’è scritto, Pastis de Marseille, roba che non t’aspetti in un posto così. La stappa, porge a Casson un bicchiere di vetro. Di vero vetro, per dio, neanche questo t’aspetteresti in queso lurido angolo di brousse; ha ragione Baktyano, è davvero un cafè speciale…

Acqua, dice Casson. E siccome il barman non capisce: ci va dell’acqua, dentro il pastis, animale, è così che si beve. L’ometto sparisce e torna un minuto dopo con una boccia d’acqua grigiastra, presa chissà dove. Bisognerebbe farla bollire, si dice Casson, disinfettarla… ma tant’è, basterà l’alcool del pastis.

Seduto al tavolo sulla panchetta bassa, rannicchiato con le ginocchia in bocca, Baktyano seduto accanto che se lo mangia con gli occhi, butta giù il primo bicchiere. Altri operai neri più anziani fanno ingresso nel maquis, li guardano stupiti; fa colpo, alla cité, Baktyano che brinda col patron bianco, lui tocca il cielo con un dito, non fa che ringraziarlo del posto ottenuto, di quella busta che gli gonfia le tasche… Casson caccia un rutto, fa sì sì con la testa e se ne versa un altro, tracanna, mette su un sorriso ebete e smette di ascoltare. L’aroma d’anice sale dalla bottiglia e cancella il fiato di Baktyano, le sue parole, gli sguardi incuriositi di quei neri e tutto il resto…

* * *

Il sole è a picco e l’aria brucia dentro i polmoni. Secchiate di luce lo investono ad ogni passo. Tutte le volte che apre gli occhi – le palpebre tremolanti schiudono a malapena due fessure – resta abbagliato. E quell’odore aspro, di polvere, di terra… Ma ce l’ha quasi fatta, è in vista dell’albergo: Hotel Djamou, recita l’insegna, chambres climatisées. E’ qui che alloggiano gli uomini del cantiere. Fa un gran respiro, si ravvia i capelli e raccoglie tutto l’equilibrio di cui è capace; spinge il battente del pesante cancello in ferro e fa il suo ingresso nel giardino interno dell’albergo.

bagre-burkina-faso3In mezzo al prato, dentro una gran catafalco di ferro nero, divampa un fuoco. Uno spilungone attizza i ceppi con una picca. Appoggiata al muro c’è una griglia unta e una ragazza accovacciata sotto un mango spiuma dei polli morti. Quelli ancora vivi, legati per le zampe e appesi a testa in giù, pendono da un ramo. Di quando in quando si danno di becco, piccoli scatti secchi sulle testine insanguinate. Lo spilungone prende un pesante coltello, s’avvicina, ne sceglie uno a caso, lo stacca dal mazzo, appoggia il collo a un ceppo e cala il colpo. La testa salta via e il resto sbatte l’ali, come fosse ancora vivo. Ma lo spilungone lo tiene saldamente per il moncone di collo e quando le contrazioni cessano lo porge alla ragazza, che se lo piazza in grembo e, tranquilla, comincia a spiumarlo, mentre lo spilungone torna alla griglia e attizza il fuoco per il barbecue.

Non sfugge a nessuno lo sguardo di Casson, il passo barcollante di quando ha bevuto… Lo accolgono con una risata:

“Eccolo!” Grida il Moro. “Aspettavamo solo te per cominciare.”

Tre gradini separano il giardino dal piano rialzato della veranda, dove su sedie e poltroncine di vimini, un dondolo e cuscini sparsi a terra, gli uomini del cantiere hanno organizzato la festicciola di Tabaski. Dal Pont tiene una ragazzetta piccola e grassottella sulle ginocchia. Buzzon, scuro in viso come sempre, se ne sta immusonito da una parte, attaccato a un collo di bottiglia. Manuel, in piedi in mezzo al prato, prova a insegnare qualche passo di danza a una stangona; il mangianastri suona una nostalgica ‘Paloma’ e lui s’impegna, serio e concentrato, stringendole la vita; è così che si balla, selvaggia, a casa mia. In giro, tra giardino e veranda, vagano qua e là una mezza dozzina di ragazze di Tenkodogo e di Bagré, invitate alla festa dei bianchi.

Tra di loro Casson riconosce anche la bambina del mercato, quella con le tettine a punta e la testa infilzata di treccine. Allora è venuta, si dice, eccola lì. La ragazzina mostra un sacchetto di noccioline e una lattina di coca, si sbraccia a salutarlo, tutta allegra, e sulle labbra di Casson si forma di nuovo quel sorriso ebete, le va incontro…

Ma sotto il mango, all’improvviso, s’imbatte nello spilungone. Ci si trova a faccia a faccia, un ostacolo inaspettato, quasi fosse sorto dal nulla, comparso lì apposta per sbarrargli il passo. Non avrà più di vent’anni, un fisico asciutto e forte, due braccia di lunghezza smisurata, un volto duro, oblungo, stempiato, come scolpito nel legno, a tratti larghi e piatti simili a quelli delle loro maschere, così severe… Lo fissa in silenzio. Chissà che ci vede, Casson, in quello sguardo, quale minaccia ci legge. I suoi pugni si stringono, i suoi occhi si caricano d’odio… Ma è ubriaco, e quel che fa non ha bisogno d’altre spiegazioni. Muove un passo avanti, aggressivo, spintona il nero fin quasi a farlo cadere, gli strappa di mano il pollo e il coltello…

Ora l’uccello s’agita debolmente nel palmo della sinistra, sente il morbido calore delle piume tra le dita, il collo fragile e indifeso percorso dal tenue anelito di vita che vi pulsa dentro; e l’impugnatura del coltello, salda e compatta, nella destra. Molti sguardi interdetti sono puntati su di lui: il Moro, Manuel, Dal Pont; e tutte quelle ragazze, su in veranda, che lo fissano ansiose, quasi impaurite. Dura qualche secondo, non di più, poi la tensione si scioglie… Casson appoggia il collo al ceppo, mena giù un colpo e la testa salta via facilmente. Il resto, come sempre, s’agita e si contorce, non vuol saperne di star fermo, si dibatte, gli sfugge di mano e riesce ancora a fare qualche metro, così senza testa, con le ali spiegate e il collo mozzo, che spurga un liquido sanguinolento. Finché crolla a terra.

Su in veranda scrosciano le risate, liberatorie, rasserenanti. Parte anche un mezzo applauso. È il solito Casson, una delle sue. Cos’è, in fondo, giusto una burla, si fa un po’ di festa… La ragazzina del mercato batte i piedi, contenta, lo sguardo ingenuo e quasi ammirato su Casson, la risata infantile. Lo spilungone gli ficca in mano un altro pollo; su quelle labbra enormi color grigio ferro, tirate attorno a due fili di perle, si stampa un sorriso compiacente: Bravo patron, gli grida, e mima anche un applauso. E pure Casson se la ride, una vecchia pellaccia riesce sempre a farcela, si dice… Afferra il pollo che lo spilungone gli porge, mena giù un altro colpo e poi fa apposta a lasciarselo scappare, quello si fa la sua corsetta scapata, quindi s’abbatte a terra, spruzzando sangue, e scrosciano nuovamente applausi e risate…

Il Moro trascina la sua amichetta a godersi lo spettacolo.

“È Casson che ha alzato un po’ il gomito, carina, vieni a vedere…”

La ragazza recalcitra, quella scena di mattanza non le piace. Ma lui la tira per un braccio e insiste:

“Avanti, bellina, è tutto a posto, le bestie vanno ammazzate, si fa per ridere, è solo un buffone.”

Perca, giugno 2016

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