Domenico Calcaterra
Una conferenza del 1982

Caproni singolare plurale

La Italo Svevo ripubblica un lontano "discorso sulla poesia" di Giorgio Caproni dal quale risalta la sua ambizione di scoprire verità personali che aspirano a diventare condivise

Non mi stupirei se Edgardo Franzosini, maestro nel raccontare storie vere di personaggi poco noti, dopo le vicende del cardinal Ripamonti, dell’attore Bela Lugosi o dello scultore Rembrandt Bugatti, decidesse di dedicare il suo prossimo romanzo alla biografia di Pietro Tordi, uomo di teatro (anche nella vita). E magari scegliendo questo strampalato titolo: L’uomo che registrava i poeti

Pietro Tordi, infatti, nel corso di un ventennio ricco d’incontri con il “pubblico della poesia” (gli i Settanta e il 1990, anno della sua morte), registrerà centinaia di voci di poeti del nostro panorama letterario di quegli anni. Abitudine che presto degenererà in un’incontrollata nevrosi che lo indusse a cercare di fermare sul nastro ogni momento della sua esistenza quotidiana. Ma chi era Pietro Tordi? Figlio di un non meno eccentrico padre, era nato a Firenze nel 1906: attore di teatro, letterato egli stesso, combattente con valore nel secondo conflitto mondiale, nel dopoguerra lavora con i registi più quotati dell’epoca (spesso incarnando il ruolo dell’avvocato), senza tuttavia mai abbandonare la professione di maestro elementare e occupandosi anche di arte (fu pittore e scultore). La sua figura, filmicamente parlando, rimane legata a talune interpretazioni: chi non ricorda, per dirne una, la forbita e inconsistente arringa dell’avvocato in Divorzio all’italiana (1962) di Germi o lo zio Terenzio del Marchese del Grillo (1981) di Monicelli?

giorgio-caproni-sulla-poesiaIl caso Tordi diventa di dominio pubblico soltanto nel 2008, quando i familiari rinvengono, per pura casualità, nella marea di registrazioni, l’archivio di quello che diventerà poi il Fondo di poesia Pietro Tordi (186 cassette trasferite in formato digitale da Roberto Mosena), straordinaria “fotografia sonora” della poesia italiana del Novecento, prima che quella stagione tramontasse, definitivamente. Oltre alle letture di circa un centinaio di poeti italiani, Tordi non mancava di registrare ogni occasione pubblica, convegno, conferenza, in cui si parlasse di poesia. Ci viene facile immaginare che un valore particolare, tra queste, senz’altro dovette assumere quella tenuta il 16 febbraio del 1982 da Giorgio Caproni (che con Tordi condivise la professione di maestro elementare), proposta adesso in volume nella deliziosa collana «Piccola Biblioteca di Letteratura Inutile» per le Edizioni Italo Svevo con il titolo Sulla poesia (2016), a cura di Roberto Mosena, che aveva già offerto al lettore un catalogo rigoroso e completo del materiale raccolto negli anni da Tordi con il volume La letteratura al registratore. Il fondo di poesia Pietro Tordi (Universitalia, 2015).

Chiamato a commentare una sua poesia – Parole (dopo l’esodo) dell’ultimo della Moglia, contenuta in Il muro della terra (1975) – dinanzi a un pubblico di ammiratori e lettori al Teatro Flaiano di Roma, Caproni coglie l’occasione per spiegare (anche facendo ricorso a semplici e concrete analogie) in cosa consista, per lui, il mestiere del poeta, e cosa produca quel singolarissimo campo di forze da cui origina il discorso poetico. L’incontro, registrato e qui restituito in volume, introdotto da Maria Luisa Spaziani, faceva parte di una serie di eventi organizzati a Roma al principio degli anni Ottanta dal Movimento Poesia, cui pure lo stesso poeta appartenne.

giorgio-caproniCaproni, nell’allineare le sue «ideuzze sulla poesia», parte dal discrimine fondamentale tra linguaggio della comunicazione e peculiarità del linguaggio poetico che, oltre al senso normale, ordinario, delle parole, si porta dietro un sovrasenso «musicale», in grado di trascendere l’immediatezza comunicativa del puro valore letterale di quanto si dice. Da ciò a contornarne la dimensione quasi artigianale del fare poesia, il passo è breve: simile a un minatore, quanto più s’inabissa nelle «secretas galerìas del alma» (Machado), tanto più il poeta dall’egotistico slancio riesce ad approdare a quei «nodi di luce» (si traduca verità) che non pertengono più a lui solo ma riguardano ciascuno. L’ambizione spontanea del poeta si alimenta di questo paradosso: invenire verità personali che aspirano, tuttavia, a diventare condivise. Nell’oscillazione dal singolare al plurale, dall’io a (se non a un noi) un dialogico tu, si gioca l’azzardo autentico del poeta. Come si trattasse di una sorta di partenogenesi autobiografica, per cui – qui Caproni lo dice chiamando in causa un Proust citato a memoria –, «quando uno legge un poeta in fondo non fa che legger se stesso. Quel poeta ha raggiunto in se stesso una verità che vale per tutti». Nello sfondamento della contingenza storica di superficie per riacciuffare una dimensione tutta nostra, di sottosuolo, del tempo – per partito preso inattuale (suggerisce ancora il poeta livornese) –, risiede l’anacronismo vitale che è la poesia.

mario-pomilioA proposito poi dei «nodi di luce» (connessa alla efficace metafora speleologica chiamata in causa nel suo discorso dal poeta), di quelle verità da fare riaggallare o da cogliere già nell’andirivieni del quotidiano (magari sottraendole all’alone di banalità o contravvenendo alla norma dell’ovvio e dell’evidenza), le argomentazioni pratiche dell’autore del più celebre Congedo della poesia italiana del Novecento mi hanno curiosamente riportato agli Emblemi di Mario Pomilio (nella foto). Poesia di barocche immagini, ove tutto è fremito di lucore, alito d’increspature metafisiche (a veicolare un senso raddoppiato e verticale), quella del giovane Pomilio, ma intrisa da un’analoga tensione di scoperta per cui gli ‘emblemi-liriche’ diventano luoghi entro cui dispiegare un pensiero sensitivo di ricerca, a scavare nel pulviscolare incavo di senso di ciò che, nonostante tutto, permane (e ci è dato cogliere). Così i pomiliani «dolci emblemi/ d’impensabili veri», nel trascorrere che pone lo sguardo del poeta fuori sincrono per cui è impegnato a tramutare «il sentito in pensato/ il futuro in passato», nell’attitudine quasi epifanica a rinvenire una luce-verità che sia tutt’uno con un’essenza musicale (il sovrasenso di cui si parlava in apertura) – «tra luce e luce, limpido brio d’arpa,/ dove ogni segno si tramuta in suono» –, mi paiono scorciare un’idea di poesia che ha più di qualche punto di contatto con il «catalogo di idee generali» messe in campo da Giorgio Caproni in questa sua conferenza romana. Altro aspetto da non sottovalutare: Caproni, non può non insistere sulla forza della parola detta e sentita (il che equivale ad ammettere l’innegabile presupposizione di un pubblico), riconoscendo un’eguale responsabilità al lettore, al suo lavoro di privata decifrazione.

A segnalare ancora l’inattesa vicinanza tra due poeti in vero diversissimi tra loro, viene in soccorso una lettera che proprio Caproni indirizzò da Roma (il 27 ottobre del 1957) a Mario Pomilio dopo aver ricevuto in lettura un gruppo di liriche, nei cui versi – era il periodo del transito dal Passaggio d’Enea al Seme del piangere –, scrive di scorgere addirittura conferma della sua idea di poesia, la quale «non deve mirar tanto a far capire ma a far sentire, appunto come la pittura e, soprattutto, la musica». E a far sentire, chiosa, «ciò che nel discorso pratico (…) non si riesce a dire». Trova, nel frutto singolare di quelle sparute liriche, una musicalità costruttiva e di sostanza, «in senso cavalcantiano e non metastasiano». Argomentazione che ci rimanda a un’altra precisazione, stavolta non di carattere generale, ma che concerne più da vicino l’officina del poeta livornese, che gli dà occasione di rettificare un falso cliché circa il suo personale modo di poetare: si difende, palesando tutto il suo disappunto, dalla semplificante liquidazione della sua maniera come canzonettistica (e che ha visto taluni interpreti chiamare in causa modelli fuorvianti come il Metastasio, o addirittura il Rolli e il Vittorelli). A parte il dichiarato rifarsi al modello della ballatetta cavalcantiana con l’esperienza poetica de Il seme del piangere (1959), i suoi modelli rimangono i Siciliani e i Toscani del De Sanctis letti da ragazzo, nemico com’è il nostro di un’accessoria idea di musicalità di contro a un’intrinseca e necessaria sonorità da reclamare per il verso (la parola detta e pronunciata).

Qualche altra considerazione ancora sul paradosso su cui si fonderebbe, per Giorgio Caproni, la pratica poetica che ammicca al lavoro del lettore il quale collabora attivamente a rintracciare i significati dell’opera poetica. Se è vero che chi interpreta «aggiunge sempre qualcosa», se è vero (come si dichiara convinto lo stesso Caproni) che di un testo poetico finisce per saperne di più il critico-lettore dell’autore, ciò equivale ad ammettere che tra poesia e critica vibri, di fatto, la stessa sotterranea corrente di ricerca. Come a dire che nel non meno paradossale agone del discorso critico, il giudizio di valore viene a coincidere con il castello argomentativo che l’immaginazione di quella particolarissima razza di lettore è stato in grado di produrre e che si fonda pur esso come soggettivissimo atto di responsabilità che ambisce ad essere condiviso (si rammenti che cosa dice Massimo Onofri ne La ragione in contumacia, 2007). Letta la sua poesia, ammette Caproni, ne sarebbe dovuto seguire, a rigore, il «commento». Eppure, da quell’iniziale lettura prende avvio la libera divagazione del critico (che nel momento stesso in cui comincia a parlare ha già smesso gli abiti del poeta, o finisce per coincidere con esso indistintamente?): ecco che questo caproniano discorso in pubblico, ci aiuta a non dimenticare come un racconto ibrido, non specialistico, che cortocircuita il poetico e il saggistico (quella Divina interferenza cui ha dedicato un magistrale saggio Chiara Fenoglio, 2015), che allinea, lungo il medesimo orizzonte, critica, poesia e vita, incarni il metodo migliore per sentire come cosa viva la letteratura.

domenico.calcaterra@gmail.com

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Consigli di lettura: Giorgio Caproni, “Sulla poesia”, ItaloSvevo, 2016; Chiara Fenoglio, “La divina interferenza. La critica dei poeti nel Novecento”, Gaffi, 2015; Roberto Mosena, “La letteratura al registratore. Il fondo di poesia Pietro Tordi”, Universitalia, 2015; Massimo Onofri, “La ragione in contumacia. La critica ai tempi del fondamentalismo”, Donzelli, 2007; Mario Pomilio, “Emblemi (1949-1953)”, Cronopio Edizioni, 2000.

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