Vincenzo Nuzzo
Dopo il "sabato del villaggio"

Vacanze di guerra

Spiagge, sole, città d'arte: l'Occidente cerca una tregua con se stesso e i propri fantasmi (terrorismo, migrazioni). Ma ormai non basta più solo una vacanza...

Cosa mai cerchiamo mai d’estate noi uomini moderni, migrando in massa dalle nostre case e dai nostri luoghi di residenza? Le risposte sono le più disparate: divertimento, riposo, cultura. Ma cosa c’è mai di vero in tali risposte? Assolutamente nulla! Questa credo che sia la verità.

La sollecitazione in tal senso mi viene dall’esperienza personale e concreta di immensa stanchezza nel fare, in piena estate (e cioè con il solleone), quel genere di vacanza che oggi potrebbe essere definita come «alternativa». E cioè quella consumata non «in spiaggia», o magari «in barca», ma invece trascinandosi arrancando, sbuffando e sudando per una delle tante oggi cosiddette «città d’arte». Siamo così immediatamente davanti ad una serie di topoi semantico-simbolici dei quali tutti noi conosciamo bene i contenuti ed i relativi significati. Conosciamo pertanto anche benissimo la gradazione gerarchica, in termini di «intelligenza» ed «attività» della vacanza, sulla quale si collocano le varie tipologie. E così sappiamo che la più stupida e pigra delle vacanze è quella «in spiaggia». Sta di fatto però che questa è senz’altro la vacanza più riposante, e quindi sicuramente corrisponde all’essenza più autentica di ciò che si intende come «vacanza». Il termine stesso allude infatti ad una difettività e ad una vuotezza, rispetto a qualcosa che invece è completo e pieno proprio in quanto è sgradevole. Cioè la vita lavorativa e prosaica della quotidianità routinaria. Sta di fatto però che la vacanza «in spiaggia» è per davvero stupida proprio in quanto è assolutamente pigra. È insomma evidente che, se questa vacanza si propone come la più prossima all’essenza dell’atto, quest’ultima ne viene molto più nascosta che non illuminata.

E questo può essere considerato il primo indizio di questa piccola ricerca filosofica sul costume. Ad esso si aggiungono poi una serie di evidenze di cronaca che sono tipiche dei periodi di vacanza. Ed in tal modo si impone immediatamente una serie di riflessioni, le quali sono tanto più ampie e profonde quanto poco sono piacevoli. Abbandoniamo dunque il così pacioso piano del cosiddetto «costume»!

La principale evidenza è quella davvero inquietante del conflitto spesso insorgente tra la prassi della vacanza e gli impressionanti fenomeni, oggi in corso, del terrorismo internazionale e delle tragiche migrazioni di popoli in fuga da fame e guerra. Dunque, da un lato vi è la normalità mondano-moderna dell’industria ed ossessione collettiva del divertimento estivo, e dall’altro lato vi è l’agire drammatico e crudele di esigenze basiche restate insoddisfatte (cibo, abitazione, salute, integrità fisica). Da un lato la certezza assoluta di soddisfazioni basiche, e dall’altro la loro totale incertezza. Ma, se da un lato sulla drammatica insoddisfazione di esigenze basiche si innesta e si impenna il bisogno di migrare nella sua forma più disperata, quest’ultimo si innesta e si impenna in fondo anche dall’altro lato. E cioè laddove le esigenze basiche sono già soddisfatte con certezza assoluta. Anzi il bisogno di migrare trae qui la sua forza proprio da tale certezza di soddisfazione. Maggiore infatti essa è, maggiormente essa si manifesta come un’insopportabile ed inaccettabile «noia», che deve poi essere annientata dal migrare vacanziero.

È esattamente su questo che si basa insomma l’intera erotica della prassi ed industria delle vacanze. Ma in tal modo non si tratta forse della stessa identica disperazione, in un caso negativa e nell’altro caso positiva? Ciò che comunque concretamente accade è che in primo luogo noi tutti (senza nemmeno bene rendercene conto) cerchiamo ormai affannosamente il luogo in cui possiamo consumare le nostre vacanze lontano dalle minacce di questi due così inquietanti fenomeni. Molte luoghi sono stati già attaccati dal terrorismo, così che la rosa delle destinazioni di vacanze esotiche si è progressivamente ristretta. La vacanza esotica, insomma, diviene sempre più proibitiva. E questo è già un grosso smacco per l’erotica delle vacanze, che abbiamo visto caratterizzata proprio dall’inflessibile indisponibilità a compromessi. Ora accade però che perfino le ben più prosaiche mete di vacanze (nazionali ed europee) vengono minacciate; anche solo dal transito prorompente di straccioni, miserabili e disperati. Costoro non compiono attentati, ma è chiaro che la loro stessa così imbarazzante presenza turba intollerabilmente l’inflessibile spirito dionisiaco al quale si consegnano anima e corpo i vacanzieri. In altre parole ciò che accade è che, mentre il mondo sta andando letteralmente in rovina, e guerre e fame vi mietono sempre più vittime, il mondo occidentale continua ad essere sempre più preoccupato, durante l’estate, di dove potrà consumare le sue vacanze in modo indisturbato.

Ora, è evidente che questo è di per sé estremamente scandaloso. Allora, per quanto discutibile da diversi punti di vista, l’appello papafranceschiano al «costruire ponti» va preso tremendamente sul serio. Tuttavia non si tratta solo di questa cogenza morale, alla quale noi occidentali dovremmo assoggettarci. Abbiamo infatti già visto emergere poco a poco diversi indizi di inquietante somiglianza tra alcuni elementi dei due scenari contrapposti: – da un lato lo svagato ed edonista Occidente vacanziero, e dall’altro lato un immenso mondo in totale subbuglio. Abbiamo infatti visto che l’urgenza della migrazione è forse tanto veemente quanto essa è allo stesso modo «disperata». Ebbene, c’è forse un elemento della società occidentale che ci può aiutare a collocare tali similitudini nel giusto contesto. Si tratta del fenomeno dell’inurbamento che negli ultimi secoli ha progressivamente svuotato le nostre campagne e riempito all’inverosimile le nostre città. Ma, dato che la tensione all’inurbamento costituisce anche un’ideologia (e spesso anche una neo-morale), allora, almeno nello spirito che governa noi moderni occidentali, siamo tutti per definizione dei migranti. Il nostro stesso stile di vita è infatti ispirato profondamente dai valori della migrazione, e cioè del dinamismo ossessivo. Che sono poi anche quelli dell’inarrestabile Progresso, del sempre più vertiginoso consumismo edonista (cardine del moderno turbo-capitalismo), e della sempre maggiore complessizzazione disintegrante ed alienante della società. In altre parole tutti rechiamo ormai impresso nel nostro DNA culturale l’atto di aver trionfalmente abbandonato per sempre il luogo in cui davvero siamo nati.

A vedere bene, però, tutto ciò costituisce anche l’humus stesso della stessa ideologia della vacanza. La cui essenza si rivela pertanto costituita proprio dal fenomeno dell’abbandono di tutto ciò che significa in quale modo Passato e Stasi. E lo significa poi esattamente nel modo che abbiamo visto prima, ovvero come quella stasi di stimoli sensoriali che minaccia e mortifica inammissibilmente l’inturgidimento convulso del desiderio che è poi lo stesso occhio del ciclone della prassi vacanziera.

Proprio in tal modo possiamo tornare alle nostre riflessioni iniziali, risolvendo così le perplessità in esse insorte. Dunque, se tutte le forme di vacanza più «attive» (e quindi più «intelligenti», nel quadro culturale di un’evidente ideologia del dinamismo come valore addirittura conoscitivo) tradiscono in qualche modo l’essenza autentica della prassi, e cioè quella del riposo più o meno assoluto, sta di fatto che la stessa vacanza «in spiaggia», sebbene ad essa più prossima, tradisce profondamente tale essenza. E lo fa perché ne è una profonda coartazione. La tradizionale vacanza come riposo avveniva infatti in un luogo molto diverso da quello configurato dal dinamismo marino, e cioè nell’assoluta e noiosissima stasi della campagna. Era solo lì che l’atto di «vacanza» diveniva davvero pieno. In quanto radicalmente assoluto. Ma con tutte le rinunce che l’assoluto deve comportare nei confronti del relativo.

È insomma evidente che tutte le forme di vacanza alle quali noi ci abbandoniamo tradiscono sempre il vero senso del termine, e quindi sono tutte estremamente poco autentiche. Lo è perfino la forma più mitigata di esse, e cioè quella più prossima al riposo. Figuriamoci poi quelle più estremistiche. A questo punto, allora, per davvero la forma più estremistica di vacanza è da considerare quella consumata nelle cosiddette «città d’arte». E lo è ancor più in quanto essa più che mai allude all’«intelligenza», e cioè alla dimensione addirittura attivo-intellettuale della vacanza stessa (che poi ambisce a costituire una vacanza nobile e dunque non prosaica). Ebbene, non vi può essere nulla di meno autentico, e quindi di più falso, di questo.

E ciò coincide allora perfettamente non solo con l’esperienza concreta di non-senso soggettivo che si può sperimentale consumando una simile vacanza. Coincide infatti anche con il totale non-senso oggettivo del flusso inarrestabile di turisti che attraversano in poche ore luoghi infarciti all’inverosimile di elementi spaziali e temporali, e peraltro distribuiti lungo prospettive davvero incommensurabili. Prospettive di tempo (che affondano nella storia di un luogo fino alle sue remote radici) e prospettive di spazio (che abbracciano l’intera esperienza di una terra e di un popolo, nella sua attualità a sua volta includente tutto il passato). Ed entro l’incrocio di tali due prospettive si accumulano poi materiali di immensa estensione e complessità (arte, manifattura, conoscenza…). Ebbene, cosa mai un turista, e peraltro estraneo al luogo, potrà cogliere e serbare di tutto questo? Assolutamente nulla! E quale altro senso potrà dunque avere un turismo cosiddetto «culturale», se non quello di rendere possibile l’esplicazione di una pura e semplice indifferenziata famelica fame di «un qualcosa…». Non importa cosa, purché abbiamo la lontana parvenza di «intelligenza attiva».

Sta di fatto che ormai interi antichi paesi (ad esempio il Portogallo) affidano tutte le loro speranze di felicità, in termine di solo benessere economico (e quindi di moderna soddisfazione di una fame mai per definizione estinta), allo «sfruttamento» del proprio patrimonio culturale. Il termine parla assolutamente da solo, per cui non è assolutamente necessario aggiungere ad esso più nulla.

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