Alberto Fraccacreta
L'elzeviro secco

Il latino di Heaney

Il Meridiano dedicato al grande poeta Seamus Heaney (a tre anni dalla morte) ne mette in luce la vocazione ad essere una sorta di Virgilio dantesco alla ricerca del Regno della letizia

Seamus Heaney amava profondamente la lingua latina. Poche settimane prima di morire aveva terminato la traduzione inglese del VI canto dell’Eneide, nel quale è narrata la discesa agli inferi del pius Enea. Heaney, per rispetto ai morti dei Troubles, le guerre civili in Irlanda del Nord, si pone nei confronti del sovrasensibile delineando un mondo celeste antecedente al cristianesimo: l’Eliseo virgiliano. È questa una delle cifre più evidenti per chi si accosti per la prima volta al poeta di Anahorish, leggendo il Meridiano in libreria da martedì, nel giorno del terzo anniversario della sua scomparsa (Poesie scelte e raccolte dall’Autore, a cura di Marco Sonzogni, saggio introduttivo e Cronologia di Piero Boitani, Mondadori., Milano 2016, pp. CXL-1194, 80 euro).

Heaney è un Virgilio dantesco, in umili vesti pastorali, che sosta nel paradiso terrestre della contemplazione, un geografo puntiglioso alla ricerca del Kingdom, il Regno della letizia da rintracciare sul mappamondo del contingente («Dove poterlo ritrovare,/ un mondo altrove, oltre// carte e atlanti,/ dove tutto è tessuto a sé// e di se stesso, come un nido,/ un tratteggio di fili d’erba?» Un erbario); un cultore di piante, torbiere, aratri, sentieri bucolici, che imbraccia la cetra per gli errori della storia, tenendo fisso lo sguardo sulle incombenze del “governo della lingua” (The government of the tongue) e tentando di estrarre, con la penna-vanga, dal terreno incrostato della memoria gli antichi legami con gli antenati («Terra che si spoglierà/ del suo lato buio,/ terra di nidi,/ estremo avamposto della mia mente» Parentele). Heaney cristallizza il meglio del quotidiano nella fucina della romanitas, la lingua assoluta della classicità. Ma il suo ideale di umanità e preghiera sono i monaci irlandesi del grande folclore gaelico: San Columba di Iona (detto anche Colmcille), San Furseo, l’abate Torbach, protagonisti delle Heremit songs, assieme a leggendari cavalieri dell’Ulster («Le scintille scaturite dalle spade brandite/ dai guerrieri dell’Ulster fecero ardere/ come il sole il palazzo di Bricriu secondo/ lo scriba del Libro della Vacca Bruna; e poi Cuchulain// intrattenne le ricamatrici/ lanciando aghi in aria/ in modo che la punta dell’uno/ s’accoppiasse con la cruna dell’altro/ a formare una rutilante catena luccicante –/ come in un mio sogno un centinaio di pennini/ si rovesciano dallo scaffale, volano a congiungersi/ in una vertiginosa corona dorata»).

seamus Heaney1Nel periodo di crisi della tarda antichità, essenziale fu il ruolo dell’Irlanda nel preservare – all’interno di monasteri e cenobi, in polverosi scriptoria e nelle insenature e valli del loro esilio – i codici latini, con la tipica scrittura onciale degli amanuensi, come spiegano Reynolds e Wilson in Copisti e filologi (Antenore), e Cahill in Come gli irlandesi salvarono la civiltà (Fazi). Il gaelico salvò così, da certo oblio, la tradizione latina, senza la quale il mondo oggi sarebbe diverso.

Con supremo parallelismo, Heaney riallaccia l’antico al contemporaneo: il “metodo mitico” di Eliot e Pound è riutilizzato per creare una “continuità discontinua” tra il classico e il postmoderno, tra la lingua uncinata del nord e quella calda e simmetrica dell’Impero. Heaney ha ricalcato, in un certo senso, il ruolo dei monaci irlandesi, riscoprendo il latino nelle pieghe dei suoi versi e conferendo alla poesia una vivace linfa di solidità etica contro il naufragio dei valori. L’afflato heaniano ha iscritto il sigillo di una morale condivisa e fondamentale, che coincide con la più umana delle virtù teologali: la speranza. Scrivere la disperazione in poesia è, forse, impossibile: Leopardi docet. Il medesimo tentativo di “versificare”, di creare cioè una catena più o meno ritmica di parole, che si stagliano nella pagina per acquistare un tono di solennità, rappresenta già un esodo, un’estrema uscita dalla condizione cantata. La poesia èdiaspora dell’io, migrazione volontaria, partenza, apertura. E Heaney è sommo testimone di tale esperienza espressiva.

Abbattendo l’ideologia e lo schema rigido di pensiero, per tracciare viottoli e scorciatoie di partecipazione antropica non lastricati di ressentiment, il Bardo è riuscito nell’ardua impresa di accordare nuovamente alla poesia un’incidenza nel reale («Virgiliane anime felici in candidi vestimenti/ gareggiano sulle loro verdi distese, mentre Orfeo/ serpeggia tra loro, sfiora le corde, scarta// sulla cadenza del proprio suonare e per evitare/ i lottatori, danzatori, corridori sull’erba./ Non dissimile da una giornata di sport a Bellaghy» Linea 110); addirittura un’incidenza politica, senza perdere, nella ruvidezza del canto civile, la trasparenza e l’agilità della vera letteratura.

L’intera opera heaniana, in prosa e in versi, con i suoi selciati fioriti di onestà intellettuale e il vivo desiderio di “riparazione” (Redress of poetry) ai torti, diviene un sorriso eversivo, un gesto di delicato rifiuto. Quello che sembrava un esercizio linguistico si dimostra àncora di salvezza, evasione per vedere più chiaramente («Prova che giunge come spesso per le grandi prove/ con improvvisa eccezione seguita dal chiarirsi costante// di qualunque cosa erat demostrandum./ Proprio quando un istante prima, i tre tentativi di un figlio/ di abbracciarlo in Elisio// risalirono sin nel vero delle braccia, dentro e fuori/ dalla radice latina, il fantasmatico/ verus sgusciato fuori da “vero”» Album). La lingua latina salva così, di rimando, l’identità gaelica, schiacciata dall’imperialismo britannico, di cui Heaney percepisce tutto il peso («Lei si dissolve al sonnolento abbraccio/ in un soffio di ricci e rugiada,/ la terra posseduta e riposseduta» L’amore dell’Oceano per l’Irlanda).

Heaney è stato uno dei massimi poeti dell’epoca odierna, tanto da assomigliare ad un Virgilio redivivo e al «monaco nel mondo» dostoevskiano: in tempi di Brexit, il traduttore di Beowulf e dell’Eneide è la perfetta incarnazione del felice matrimonio tra nord e sud d’Europa, di una convergenza benefica delle grandi faglie culturali di cui si veste l’humus del nostro Continente. Ciò che manca di lui è lo spessore etico così intimamente legato all’incanto delle sue liriche. Heaney è la prova – in ambito letterario, certamente – che il bene è sempre bello e luminoso, che niente di ciò che è vero potrà mai essere lontano dal pieno splendore.

Un grande ha riposto la fede nel “significato”
che attraversa lo spazio come una parola
di grido e protesta, un altro nelle
“Fantasie del poeta

e nei ricordi d’amore”:
la mia per il momento è riposta
nella fermezza della mano conservata
nei libri contro il proprio venire meno.

Libri di Lismore. Kells. Armagh.
Di Lecan, il suo grande Libro Giallo.
“Il combattente”, scuro di bacca, nel reliquiario.
Le pelli conciate. Le penne ampiamente saggiate.

(da Canzoni dell’eremita, IX, Catena Umana, Mondadori, Milano 2011, traduzione di Luca Guerneri)

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