Paolo Bonari
Ritratto dell'autore uruguayano

Benedetti, l’europeo

Alla (ri)scoperta di Mario Benedetti, il meno "magico" degli scrittori sudamericani. E anche il più "europeo". Non solo nel nome: la sua prosa ricorda quasi quella di Moravia...

«Io, ad esempio, non amo particolarmente la letteratura sudamericana. La trovo troppo grassa, floreale, sovrabbondante. A me piace la nettezza della lingua»: così, Francesco De Gregori, che confidava ad Antonio Gnoli i propri gusti letterari, nel recente Passo d’uomo. Per quanto mi riguarda, il mio non potrebbe essere altro che un pre-giudizio, coincidente con le preferenze del cantautore, perché quella letteratura la conosco poco, ma le sensazioni che ne ho tratto, le poche volte in cui mi sono deciso ad avvicinarla, erano simili alle sue: avevo a che fare con un carnevale umano molto colorato, nel quale le figure finivano per essere un po’ appiccicose e tracciate con contorni spessi – io preferivo l’acquerello –, e mi dava fastidio una certa ossessiva ricerca dell’epos. La curiosità, però, mi rimaneva, mi rimane: il senso dell’avventura, anzi, nel procedere verso la soglia di un intero continente letterario, nell’affacciarmi su quello spazio per me vergine, con l’auspicio di un’effettiva lontananza da certe iper-teoriche contorsioni europee.

Nottetempo presenta l’uruguayano Mario Benedetti, nato nel 1920 e scomparso sette anni fa, come “uno dei massimi narratori e poeti del Novecento” e sarà il caso, allora, di dare una sbirciata ai due libri che ha in catalogo, La tregua e Chi di noi. Il primo, scritto nei primi cinque mesi del 1959, inizialmente pubblicato dall’editore romano nel 2006 e riproposto in una nuova veste nel 2014, sarebbe un “piccolo classico della letteratura sudamericana”, “uno dei grandi romanzi novecenteschi”, ed è stato tradotto in decine di lingue, ma anche adattato per il teatro, la radio, il cinema e la televisione: più che un romanzo, però, questo è un diario che copre un anno o poco più di vita del protagonista, un impiegato prossimo al pensionamento che vive le proprie giornate di ordinaria solitudine, indecisione e mediocrità a Montevideo e le mette su carta con l’esplicita volontà di non “sembrare patetico”. Vedovo con famiglia disastrata, ai componenti della quale estende l’amara conclusione: “ormai siamo tutti irrecuperabili”. Là fuori, la società uruguayana degli anni Cinquanta, al cui alto tasso omofobico si conforma il protagonista, che così reagisce alla scoperta che uno dei suoi tre figli è “finocchio”: «Avrei preferito che fosse uscito ladro, morfinomane, ritardato. Vorrei sentire pietà nei suoi confronti, ma non ci riesco». Poca o punta, la magia quotidiana, almeno fino all’innamoramento per una ragazza che ha meno della metà dei suoi anni: è questa “la tregua”, la momentanea fuga dal proprio destino.

Se mi fidassi della mia psiche storica, il mio gusto eurocentrico assocerebbe Benedetti a Moravia – più che all’Italo Svevo di Senilità cui allude la quarta di copertina, forse –, al Moravia immaginario e giovane che avesse (anzitempo) rinvenuto e spalancato il baule di Fernando Pessoa: che avesse ritrovato e sfogliato Il libro dell’inquietudine, certo, ma senza lasciarsi intenerire da certe fughe astrali. C’è da dire che sembra difficile che Benedetti si lasci intenerire da alcunché: non da se stesso, cioè dalla possibile promozione di sé, dalle tendenze culturali che sarebbe stato agevole abbracciare, proprio come i suoi personaggi introspettivi non si lasciano abbindolare dall’analisi psichica freudiana e sembrano provare molta pietà verso gli altri e nessuna per sé stessi. Se freudismo c’è, è così annacquato (dall’Oceano che c’è di mezzo) da farsi subito universale disposizione dell’individuo al proprio esame asistematico, auto-confessione e fuga esistenzialistica dalla ripetizione ordinaria.

Mario Benedetti2«Ma l’arte non smette mai di essere un’illusione e, quando è verità, cessa di essere arte e diventa noia, perché la realtà è soltanto un insanabile, assurdo tedio. E così tutto si riduce a un vicolo cieco. La pura realtà mi annoia, l’arte mi sembra abile ma mai efficace, mai legittima. È solo un ingenuo stratagemma che certe persone disilluse, svergognate o malinconiche usano per mentire a se stesse o, cosa peggiore, per mentire a me. Io non voglio mentire a me stesso. Voglio sapere tutto di me»: a riflettere è Miguel, uno dei tre protagonisti di Chi di noi, il “romanzo” tripartito con cui Benedetti esordì nel 1953, recentemente pubblicato da Nottetempo – tripartito perché si compone di un diario intimo, di una lettera e di un racconto, con i tre personaggi della vicenda che prendono la parola, a turno, in una giustapposizione anti-gerarchica, per esporre il proprio punto di vista. Un triangolo amoroso li coinvolge e li sfianca: Miguel e Lucas incarnano l’uno per l’altro – un europeo sprecherebbe una maiuscola: “l’Altro” – un modello, e si potrebbe approfittare, in un caso del genere, davvero “di scuola”, della metodologia girardiana del mimetismo inter-personale. (René Girard, al tempo della pubblicazione di Chi di noi, era appena trentenne e lontano da certe intuizioni: giusto per fugare ogni dubbio di reciproche influenze). Che cosa succede, quando uno dei due conquistatori immagina l’altro come un modello irraggiungibile e vincente? Che la combinazione amorosa si svela come self-fulfilling prophecy: quando temiamo che la nostra amata se ne vada con l’altro, sarà proprio questa nostra paura a spingerla verso quelle braccia sconosciute, che continuano a sembrarci più forti e capienti delle nostre, tanto che finiranno per esserlo davvero.

«Ho realizzato il mio unico proposito: essere il più sincero dei mediocri, l’unico consapevole della propria banalità»: Miguel, ancora, che avverte gli assalti di quella noia di sé che è invariabilmente in agguato. Alla massima sincerità, nella narrativa di Benedetti, risponde il dolore che non si sana e sanguina, e la letteratura non è altro che un distanziarsi dalla ferita, per mezzo di un artificio esile e riconoscibile: così, infatti, la terza voce del libro, quella dello scrittore Lucas, è tanto iper-letteraria da contraffare e mascherare l’esistenza dolente che le sottostà. Quello letterario, insomma, è l’atto della confusione inutile: quando comincia il teatrino dell’arte, nell’alzarsi dei suoi fumi, il dolore sembra sparire, ma resta la consapevolezza del trucco. La vita rientra a modo suo, e fa strage di certi mezzucci: con le note a piè di pagina dello stesso Lucas, per esempio, crepe nel tessuto letterario che s’infittiscono e gettano ombre sul testo. Ma anche “la vita”, se non è quella interiore, la vita come realtà esterna, non è altro che un effetto secondario della partita che si gioca dal di dentro, nel dialogo imperfetto e non cerebrale del sé con se stesso: tanto basta per rendere complicata la scrittura dei tanti romanzi a una voce sola che sarebbero possibili, ma finiscono per sovrapporsi gli uni con gli altri – il romanzo perfetto è la voce sola di un uomo solo, la cui verità non sia contraddetta da quelle altrui.

Di certo, Benedetti non è uno attorno al quale sia possibile allestire mitografie, essendo la sua figura così refrattaria a quella stilizzazione eroica che tanta parte ha avuto, nelle fortune di altri conterranei (García Márquez, Bolaño…), e sembra che la sua narrativa abbia raggiunto il proprio vertice molto presto, con La tregua: un vertice relativo, non assoluto, perché diffiderei di certe iperboli e mi sarebbe difficile non considerare Benedetti come un ottimo “scrittore minore”. Poi, però, qualsiasi gerarchizzazione finisce per sembrarmi uno sgarbo, di fronte al sorriso così pudico e signorile delle sue fotografie, e la smetto.

Proprio all’altezza di questo romanzo sui generis di Benedetti, negli stessi mesi, Goffredo Parise andava tirando le proprie conclusioni sulla sopravvenuta inutilità di questo genere letterario: un’inutilità non italiana e non europea, ma globale, dato che ogni società si stava imborghesendo e finiva per somigliare a tutte le altre, tanto che risultava impossibile la produzione di quei romanzi “ideologici” che fecero la fortuna del genere, fino all’esaurimento della prima metà del Novecento. Allora, Benedetti potrebbe essere un autore proprio di questa crisi, uno che continua a tentare la narrazione lunga e a ribadirne i fallimenti: è un cronachista domestico o, al massimo, urbano, incapace di romanzi, maestro di blocchi di testo brevi, che vanno fortunosamente a comporre qualcosa che sembra un romanzo, ma non lo è. Dopo, e per decenni, mi pare che egli si sia dedicato quasi unicamente alla produzione poetica e saggistica, ma aspetto chi ne sappia più di me.

Molto novecentesco, ma di difficile collocazione: primo-novecentesco nelle aspirazioni, più tardo negli esiti, e comunque immune dai colpi e contraccolpi teorici dell’epoca, sembra che Benedetti, come certi suoi personaggi, il secolo se lo sia lasciato scorrere dentro e che anche la geografia sia un’opzione non definitiva, se è vero che si avverte bene il suo essere latino e meno l’americanità, come controcanto epicizzante della Storia – Benedetti non ha alcunché di whitmaniano, né di paziano o walcottiano o nerudiano. Uno così sembra e non sembra smaliziato: è ancora naïf chi abbia oltrepassato le mode e le scuole semplicemente passeggiando, come non avvertendo ostacoli? (Questo articolo risente del passato colonialista dell’estensore, nonché della sua ignoranza tipicamente europea: con la promessa che cercherà di emendarsi, in futuro).

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