Sabino Caronia
Italia, primo agosto/10

La maestà e la paglia

Una giornata a Fossanova, sulle orme di Tommaso d'Aquino, nel monastero dove morì «per divenire una luce più grande per il mondo…». E ripensando alla lezione del “doctor universalis” sembra che tutto quello che è oltre queste mura sia ben più vasto

Da Terracina, in bicicletta, percorro la vecchia Appia, sulle orme di san Paolo, e poi, costeggiando l’Amaseno, il fiume legato alla memoria della vergine Camilla (alla storia di Metabo, re della volsca Priverno, che, giunto alla sponda dell’Amaseno, lega la figlia, chiusa in una corteccia di sughero, alla sua grande asta e, consacrandola a Diana, la scaglia oltre la corrente sull’altra sponda), arrivo a Fossanova. Passo sotto l’arco della porta d’ingresso e mi ritorna in mente quella fantasia del protagonista nelle pagine iniziali dell’Uomo senza qualità: «Immaginò che il grande filosofo e teologo Tommaso d’Aquino, morto nel 1274, dopo aver con immensa fatica messo ordine nel pensiero del suo secolo, avesse ancora continuato a perfezionare quel suo lavoro e solo ora ne fosse giunto al termine; ed ecco che, rimasto giovane per eccezionale favore, usciva adesso dal portale romanico di casa sua e un tram elettrico gli passava di carriera davanti al naso. L’attonito stupore del doctor universalis, come gli antichi chiamavano il grande Tommaso, gli mosse il riso».

Dopo aver sorseggiato il solito cappuccino al Caffè dei Guitti, esco e guardo a destra verso l’ex Infermeria dei Conversi ricordandomi di Umberto Eco, autore di una “intervista immaginaria” con Tommaso d’Aquino ambientata a Fossanova il pomeriggio precedente il giorno della sua morte, di quando, soltanto un anno fa, in occasione dell’attribuzione del premio san Tommaso, sotto una pioggia battente, tenne nella grande sala, usata oggi per conferenze, uno dei suoi ultimi discorsi. Anche stamane ha preso a piovere. Entro perciò nel complesso abbaziale e quindi in chiesa.. Nel pilastro di sinistra, l’ultimo rispetto all’entrata, un’iscrizione richiama la mia attenzione: Huius aedis maiorem partem turrim sacrum atque aram maximam ictu fulminis deiectas Petrus cardinalis Aldobrandinus Clementis VIII Pont. fratris fikuis huius monasterii perpet. Commendatarius restituit anno salutis MDXCV.

Leggo: «ictu fulminis deiectas». Dunque un colpo di fulmine distrusse il tiburio e l’altare maggiore. Si dice che san Tommaso non fosse impassibile al terrore che incutono certi fragorosi e violenti temporali e che in questi casi si faceva coraggio segnandosi col segno della croce e invocando il mistero della nascita e della passione di Nostro Signore: Deus in carne venit, Deus pro nobis mortuus est…

Guglielmo di Tocco racconta che, mentre aveva ancora pochi mesi, durante una notte di formidabile tempesta, una di quelle formidabili tempeste del cielo ciociaro, il castello di Roccasecca venne investito da violente raffiche di vento e sembrava che si scuotesse tutto sotto il rombo di tuoni paurosi. Un fulmine cadde sul torrione e penetrò nella stanza dove era custodito da una domestica con la sorellina e uccise questa e poi i cavalli della stalla sottostante. La mamma accorse spaventata e trovò il suo piccolo tranquillo accanto alla nutrice. Scrive Gilbert Keith Chesterton: «A quanto si narra, il D’Aquino non poteva sopportare alcun rumore e aveva in orrore gli uragani… in ogni modo, la nota dominante del suo carattere fu la serenità». Gli uragani e la serenità. Mi viene da accostare il colpo di fulmine che si abbatté sulla chiesa all’ictus da cui il santo fu colpito durante la messa celebrata nella cappella di San Nicola della chiesa domenicana di Napoli il 6 dicembre 1273. In conseguenza di ciò la Summa Theologiae rimase interrotta. Al fedele amico e segretario, Reginaldo da Piperno, che lo esortava a completarla, Tommaso disse: «Reginaldo, non posso, perché tutto quello che scrissi mi sembra paglia» e, insistendo quello, ripetè: «Mi sembra paglia rispetto alle cose che vidi e mi sono state rivelate». La maestà e la paglia.

san tommasoQuel che chiaramente risulta da questo come da altri episodi della vita del santo è il senso religioso, senso del mistero, del limite della conoscenza umana, il presentimento di un’immensa zona di realtà e di verità che sfugge all’intelligenza umana e verso la quale tuttavia è diretta una segreta aspirazione dell’uomo, come nel capitolo 48 del libro III della Summa contra Gentiles nel quale si afferma che la suprema felicità dell’uomo è oltre questa vita, capitolo che, pur nella veste raziocinante, ha un sapore quasi pascaliano, con quella osservazione finale sull’angustia sofferta dai praeclara ingenia dei filosofi che non avevano a sostenerli la fede nella rivelazione. Ripeto i versi del canto terzo del Purgatorio dantesco: «“State contenti, umana gente, al quia; / ché, se potuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria, / e disïar vedeste sanza frutto / tai che sarebbe lor disio quetato, / ch’etternalmente è dato lor per lutto: / io dico d’Aristotile e di Plato / e di molt’altri”; e qui chinò la fronte, / e più non disse, e rimase turbato».

Al terrore dei fulmini e dei temporali si può collegare a mio giudizio anche un altro episodio della vita di san Tommaso che precede di poco la sua morte. Discendendo da Teano per la strada di Borgonuovo Tommaso batté con la testa contro un albero che era caduto per traverso sulla strada, e questo forse accadde proprio a causa di un temporale. «Maestro – gli chiese allora fra Reginaldo – vi siete fatto male?». E a lui Tommaso rispose: «Un poco». A partire da questo momento il santo va incontro alla morte. Colto da malore mentre è in viaggio per raggiungere il Concilio di Lione è costretto a ricoverarsi a Fossanova, in un convento non di domenicani. Giunto al monastero a cavallo di un mulo, attraversata la vecchia porta d’ingresso, posta dove ora è il museo, ed entrato in chiesa Tommaso passa nel chiostro dalla parte del parlatorio e lì, pensando che avrebbe trovato la sepoltura, esclama col Salmista: «Questo è il mio riposo per sempre: qui abiterò perché ho scelto questo luogo».

Gli è assegnata la migliore stanza della foresteria. In quella stanza, che è detta la stanza del transito, e che nel Seicento venne trasformata in cappella dal cardinale Francesco Barberini, Tommaso passa ad altra vita sul crepuscolo dell’alba di mercoledì 7 marzo 1274. Ai lati dell’altare due distici latini lo ricordano ed esaltano: «Tommaso è morto qui per divenire una luce più grande per il mondo, e perché Fossa Nova ne fosse così il candelabro», «Il luogo è divenuto celebre a motivo di questa lampada ardente e non nascosta. Chi dunque potrà negare che questa Fossa è Nuova?».

Sulla parete di sinistra è il racconto delle ultime ore del santo, fatto da un anonimo, fino al momento della morte che lo coglie mentre sta spiegando ai religiosi presenti il Cantico dei Cantici: «Nel dare la spiegazione, essendo arrivato fino al sesto capitolo del libro, e pronunciando con gli occhi rivolti al cielo quelle parole dello stesso capitolo, nelle quali si era imbattuto con veemente ardore dello spirito e con somma gioia: “Vieni… entriamo nell’orto”». Giustamente ha scritto Chesterton: «Qualcosa di grandioso pare aleggi intorno a lui. Coloro che lo attorniano hanno la sensazione che un’intelligenza poderosa lavori in mezzo a loro come un gigantesco mulino, e che l’interno del monastero sia ben più vasto di tutto ciò che è oltre le sue mura».

Mentre me ne sto in silenzio, al riparo dalla pioggia, a un tratto ho la sensazione di afferrare qualche eco che viene da lontano, dal coro dei monaci, dai campi di lavoro, forse dalla stessa cella di Tommaso, quasi un flebile sospiro o una preghiera. Mi sembra quasi di essere lontano nei secoli, di sentire ancora risuonare quel canto dell’antifona al termine della Compieta di Quaresima che tanta suggestione esercitava sull’animo di Tommaso: Media vita in morte sumus / quem quaerimus adjutorem nisi te, Domine, / qui pro peccatis nostris jus irasceris / sancte Deus, sancte fortis, / sancte et misericors Salvator / amarae morti ne tradas nos… Ripeto e ricordo le due strofette finali del Pange lingua, le ultime parole di quel canto composto da san Tommaso che, unite all’odore dell’incenso, una suggestione così forte esercitavano su di me al tempo dell’infanzia: Tantum ergo sacramentum / veneremur cernui…

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