Valentina Fortichiari
“L'amico di una vita” di Roddy Doyle

Morto che parla

È un gioiello il nuovo racconto dello scrittore irlandese al meglio di sé. Un teatrino alla Ionesco con la profondità commossa e l'intelligenza emotiva necessarie per alludere a vicende umane universali come l'amicizia, l'amore, la perdita, l'assenza…

«Ho rivisto Joe la sera prima del suo funerale… Non è una cosa che capita tutti i giorni, no? Se era la sera prima del suo funerale, Joe doveva essere morto. Ecco cosa state pensando. E avete ragione. Era morto. Era morto. Però poi mi ha parlato». Si può fare materia di riso la morte e il ricordo dei cari estinti? Sì, se, come nel caso presente, la realtà oggetto della narrazione venga smontata e rimontata, con effetti comici e al tempo stesso tragici, ottenuti attraverso situazioni apparentemente senza senso e dialoghi surreali. Ma solo una penna lieve come una piuma, abile nello humour sottile, e un occhio che guardando al di là del reale veda il risvolto assurdo dei fatti, hanno in felice unione tra loro la capacità di rovesciare il dolore in spunto di comicità. Stiamo parlando di un Roddy Doyle al meglio di sé: in quel gioiello che è l’ultimo raccontino, L’amico di una vita (Guanda 2016, traduzione di Stefania De Franco), con pochi tocchi e una trama tutta dialogata, mette in scena un teatrino alla Ionesco, dove i fuochi d’artificio, all’inizio smorzati, progressivamente si effondono in raffiche sempre più ravvicinate, spettacolari. Una fantasmagoria spassosa, molto divertente, tutta funambolismi di fantasia e di parola, con una felicità inventiva nuova che sa nascondere tra le righe la profondità commossa, l’intelligenza emotiva necessaria anche solo per alludere alle universali vicende umane come l’amicizia, l’amore, la perdita, l’assenza, di fronte alle quali non sempre si è adeguati. Senza mai dimenticare che siamo in Irlanda (e dove altrimenti? nei libri di Doyle, dublinese sino al midollo), il paese dove non ha senso rispondere alla domanda «Credi che pioverà?» perché la risposta sarebbe sempre sì.

Doyle 2Un giro dell’isolato per pensare all’amico Joe che non c’è più (altra perla del nostro Doyle: «”Pòrtati il cane”, disse lei. Era una battuta ricorrente fra di noi. Non avevamo nessun cane»), e il tipografo di mezz’età Pat Dunne, il protagonista che dice io, pur recalcitrante deve affrontare il momento fatidico della veglia a Joe. Molti anni sono trascorsi dal giorno del litigio che segnò la fine della loro amicizia: i due avevano litigato per un cavallo e tre donne, trent’anni prima. Il cavallo sarà dimenticato nel corso della narrazione, le donne no, ma, quasi a cercare evidente complicità, i lettori Pat (Dunne/Doyle) se li porterà con sé addirittura davanti alla bara, di tanto in tanto puntualizzando qualche dettaglio con voce fuori campo (come nei film di Woody Allen) mentre conversa con il suo Joe: «Devo ricordarvelo?», «Però una cosa posso dirvela». È proprio questo Voi, la presenza dei lettori sotto traccia, che permette a Roddy Doyle di giocare con la filosofia dei “però”, vale a dire le contraddizioni, gli sgambetti in contropiede di una esistenza dove tutto è messo in dubbio, sino all’estremo limite di un morto che parla.

Joe infatti, l’amico di una vita, si fa trovare seduto nella bara, «un po’ ridicolo, quasi fosse in una barchetta a vela… senza vela. O in una carrozzina», e persino se ne esce per sgranchirsi, senza alcuno sforzo, scivolando giù di gambe, in completo e cravatta. Si mette pure a ridere, dunque non è morto. Joe ha un viso pallidissimo e lucido, pare la lucentezza innaturale di un morto, però parla, ride, entra ed esce dalla bara con la disinvoltura di un ragazzino, appena sente voci di persone in avvicinamento. Offre a Pat di provare l’emozione di entrare nella sua bara lievemente imbottita, come per saggiare una simulazione di morte in anteprima. L’amicizia maschile ha spesso come luogo comune la rivalità in amore: Pat Dunne e Joe litigarono per una ragazza alla quale entrambi facevano la corte. I ricordi emergono in una sequela ripetuta, integrata ogni volta da particolari diversi, come se Doyle volesse dire al lettore che ognuno può – nella nicchia della memoria – fare quello che gli pare del proprio vissuto, ma in presenza della morte i conti non tornano quasi mai.

cop Roddy DoyleIn quel luogo unitario di tempo e azione dove recitano tutti i teatranti, Pat Dunne e sua moglie Sarah, sempre sorridente, incoraggiante, il figlio Gavin, sempre silenzioso, Karen, la vedova, Sandra Nolan, la ragazza contesa, la signora Webb, la scena si ripete come se di volta in volta i personaggi dovessero scoprire nuove battute, nuovi ricordi, un modo diverso di relazionarsi fra loro, cambiando appena quanto hanno da dirsi. Sappiamo che Pat Dunne vorrebbe rimandare il suo impatto con Joe, eppure Doyle lo condanna a una sequela a ripetizione che ce lo mostra nell’atto di entrare nella stanza della veglia «piena di bambini molto vecchi», salutato dall’anziana Signora Webb con una litania monotona e sempre uguale («Ci rivedremo di continuo», quasi a rimarcare il gioco stesso dell’autore).

Succede sempre tutto daccapo, come entrare e uscire dalla stessa scena, perché la vita mette continuamente di fronte a prove difficili che si vorrebbero invece rimuovere. Nel film commedia Ricomincio da capo (1993) un esilarante Bill Murray ogni mattina, al suono della sveglia, mutando di volta in volta qualche dettaglio ripete la sequenza della sua giornata, il 2 febbraio, festa americana della marmotta che, svegliandosi, dovrebbe annunciare la primavera (ma dato che non lo fa, il cronista …ricomincia da capo). Pat Dunne, il quale potrebbe avere il volto e forse le movenze di Bill Murray, fa lo stesso, eppure l’incubo o il sogno ripetuto di un incontro ravvicinato con l’amico che è morto ma continua a vivere, gli permette almeno di parlare parlare parlare finalmente (peccato che il titolo italiano, L’amico di una vita, non ricalchi quello inglese più appropriato e significativo, Dead Man Talking). Parlare con Joe o con se stesso?, magari recuperando emozioni antiche, perdute: «Non parlavo così da anni. Con nessuno, neppure con me stesso. Era bello stare con Joe. Che fosse vivo o morto. Vivo e morto. Mi sentivo un po’ morto anch’io. E libero».

E se l’amicizia maschile si rompe a volte per un confronto stupido e banale di prestazioni sessuali, se l’amore è quasi sempre una donna che ci metterà una vita ad andarsene, se i morti non hanno un buon odore, però sanno piangere e ridere, ecco allora l’aldilà: quella dimensione che si prova già da vivi, che ognuno di noi potrebbe crearsi a proprio uso e consumo, come pezzi da assemblare comprati all’Ikea, un aldilà da vivi ancora prima di passare al sonno della morte, dal momento che l’aldilà sono in fondo «le cose brutte che hai fatto, le persone che hai ferito». Joe se la ride ancora, mentre l’amico Pat, dalla testa ormai calva, forse si sta appena svegliando da un incubo.

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