Alberto Fraccacreta
L’elzeviro secco

I fiori di Bonnefoy

Per il massimo poeta di lingua francese appena scomparso compito della poesia è condurci nel punto in cui il pensiero metafisico conversa con il pensiero morale, per capire come vivere nella realtà. Ci ha condotto per mano in questo cammino con la sua lirica limpidissima che è una “celebrazione della poesia”

Yves Bonnefoy è, era il massimo poeta di lingua francese. È, era: la scomparsa di qualcuno ci fa vacillare su quale tempo decidere per l’azione. Se la morte è un’azione, essa si riferisce sempre all’imperfetto nel suo accadere e, al contempo, addita un improbabile presente all’esistenza di colui che mai sarà cancellato. È ancora con noi Yves, o poco più in là, più sopra, come un turbine, svetta sui viventi.

Professore emerito al Collège de France, prosatore eccentrico e saggista delicato, ha al suo attivo un’imponente produzione traduttoria: il teatro di Shakespeare in particolare, che costituisce, accanto al trattato antropologico Dizionario delle mitologie e delle religioni, uno dei pilastri epistemologici su cui fonda la visione del reale. Centrali sono le riflessioni su Keats e Leopardi, più fugaci, ma comunque scintillanti quelle su Rilke, Yeats e Heaney. Prezioso interprete del Petrarca, e in generale capace di notevoli divagazioni sulla lingua, la poesia e l’arte italiana, è stato meritatamente candidato al Nobel per la letteratura in diverse occasioni, e ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti internazionali, che lo hanno appunto indicato come massimo esponente vivente della cultura francese. Non vive più il mondo delle apparenze. Ma oggi è alla sorgente, all’estrema falda, nel posto della lunga adolescenza, dal latino adolescere, crescere, laddove – per dirla con Zagajewski – «i sogni crescono al mattino».

Secondo Bonnefoy è compito del poeta riacquistare la nativa adiacenza alle parole e alle cose (tipica di un tempo giovane), distanziate dalla necessità di concettualizzazione intellettuale e di vita activa. Come già rilevava Foucault, il sapere esige una sua archeologia. Il lavoro del poeta è, dunque, di natura intimamente etimologica: il nostos, il ritorno della parola a ciò che era nella giovinezza del suono, perché riacquisti nuova linfa e riesca a uscire dall’usura del dire giornaliero. Questo tema è espresso dall’autore in numerosi scritti teoretici, ma anche nella limpidezza della lirica, che prefigura se stessa come costante espressione del suo farsi. Ritorno entro propri confini, appunto. Berardinelli ha detto di lui: «Bonnefoy in Movimento e immobilità di Douve (1953) scrive poesia sulla poesia, sul mito della parola poetica in quanto forma identificabile con un discorso sull’Essere: la sua si presenta come poesia d’amore sul corpo e sull’essenza femminile e si risolve in celebrazione della poesia». Il viaggio verso una parola cristallina e femminile nel suo costituente fisico diventa l’altra faccia della sapienza poetica, come per Dante.

Del resto, in Bonnefoy il nome è ciò che salva. Non per sua volontà, bensì come contenuto di un rimedio, per il quale occorre una volontà ulteriore: la memoria. Ne L’ora presente, ultima silloge a oggi tradotta in Italia, benché la memoria sia intimidita dal graffio della cancellazione, conserva per noi il carattere di un museo, così docile, equilibrato, pulito nei cimeli che ravvivano e riflettono il movimento della letteratura. La poesia ha il dovere di riportarci alla presenza viva dell’alterità, dal quale il pensiero astratto e concettuale ci ha allontanato, rendendoci macchine individuali. Se il pensiero è linguaggio, come asseriva il secondo Heidegger, esso ci ha separato in una scatola rotta da cui non possiamo uscire. Ma il linguaggio è lo stesso strumento che può riunirci: prepara un esodo. Così, compito della poesia è addurci alla finitudine della terra, nel punto in cui il pensiero metafisico conversa con il pensiero morale, per capire come vivere nella realtà, in questo luogo, in questo palpito. Ed è qui che si verifica il ritorno allo stelo primissimogemmante. Per sua natura, la poesia si nutre di una certa ambiguità. Da una parte non può impedirsi di sognare, come la metafisica, e dall’altra, sente di doversi rivolgere alla concretezza delle persone. La grande eredità del Rinascimento è di riconciliare gli elementi ricevuti dalla civiltà greca e latina: teoresi e prassi convivono. Tutti abbiamo in noi il desiderio di sognare una realtà superiore a quella nella quale siamo immersi. Siamo attratti dal tempio greco per la sua tensione verso un ideale. Ma i grandi architetti del Rinascimento italiano aggiungono qualcosa perché ridanno forma all’edificio, quindi all’idealità, nel luogo vissuto, nel luogo in cui si svolge la vita. E allora – sostiene Bonnefoy – occorre continuare a riflettere su questa dualità, su questa oscillazione del duplice, se vogliamo sostenere il punto di vista della poesia.

Lucidissimo è il Bonnefoy critico d’arte. Nel saggio su Morandi, Giacometti e Hollan il guizzo del poeta francese si trasforma in comprensione estetica ed eidetica della parola nell’arte figurativa. «E in Morandi è un’esperienza del tutto diversa da quella dei suoi contemporanei, che constatano le illusioni del discorso e ne concludono che bisogna operarne la decostruzione. Questa la sua esperienza, questa la sua domanda in ogni caso: nell’illusorietà del discorso, come restare arroccati a un senso, come conservare il contatto tra le parole e il mondo, come permettere loro, potremmo piuttosto dire, di creare un mondo? Che Morandi si ponga questa domanda è evidente. Le sue figure possono essere percepite solo come vestigia della vita, nel silenzio delle rovine, ma il loro colore ha conservato un’intensità che dimostra che il contatto con ciò che, in questo vuoto, si percepisce come essere non è interrotto: i fiori sono recisi, eppure non appassiscono. E il bouquet su quel tavolo silenzioso, non si può dire forse che è qualcosa di disposto? Di disposto in vista di un arrivo, di un’attesa?».

Il sogno, il fiore del sogno è la purezza dell’immagine nel nome, e il nome è l’infinito dell’altro, il confine inestimabile entro cui l’altro illimitatamente ci è dato. E fiorisce. L’altro ci appare, si staglia alto nello splendore del suo nome. Lì risiede tutta la purezza d’essere, a un tempo ideale e concreta, trascendente nel reale. Nell’altrui nome noi vediamo la trasparenza di ciò che è presente, e percepiamo il profumo dell’ora presente, una fioca luce di verità che ci consegna la presenza a metà tra ciò che è sogno e ciò che è con noi. Qui, adesso.

Io ti offro questi versi

Io ti offro questi versi, non perché il tuo nome
Possa mai fiorire in questo suolo povero,
Ma perché tentare di ricordarsi,
Sono fiori recisi, il che ha senso.

 

Certi dicono, persi nel loro sogno, «un fiore»,
Ma significa non sapere che le parole tagliano,
se credono di designarlo, in quel che nominano,
Trasmutando ogni fiore in idea di fiore.

 

Tranciato il vero fiore diventa metafora,
Questa linfa che cola, è il tempo
Che finisce di liberarsi dal suo sogno.

 

Chi vuole avere, talvolta, la visita deve
Amare in un mazzo che abbia solo un’ora,
La bellezza non è offerta che
a tal prezzo.

Yves Bonnefoy
(Da L’ora presente, Mondadori 2013)

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