Raoul Precht
Periscopio (globale)

Harmonia Esterházy

In memoria di Peter Esterházy, grande scrittore ungherese morto un mese fa. Nelle sue parole la ricerca spasmodica di un'identità perduta che affonda le radici nel cuore dell'Europa

Giusto tre mesi fa, ricordando Imre Kertész che era scomparso da pochi giorni, non avrei mai immaginato di trovarmi presto a parlare, per la medesima ragione, dell’assai più giovane Peter Esterházy, che a Kertész era legato da una solida amicizia. Esterházy si è spento il 14 luglio, ad appena sessantasei anni. Quello che ci lascia sono alcuni libri minori, come Una donna e Non c’è arte, usciti da noi rispettivamente nel 2008 e nel 2012, e un opus magnum, le due versioni di Harmonia caelestis, di cui Feltrinelli ha pubblicato la prima nel 2003 e la seconda, quella “corretta”, nel 2005.

Una donna è un collage d’incontri reali e immaginari con novantasette donne diverse, che diventa una serrata riflessione sull’eterno femminino e sulle condizioni grazie alle quali s’incarna. Nel successivo Non c’è arte, in cui in parte confessa e in parte reinventa la presunta passione della madre per il calciatore Puskás, eroe e simbolo della famosa nazionale ungherese degli anni Cinquanta, Esterházy dà conto anche della propria passione per il calcio, facendone qualcosa di più di una semplice metafora, quella dell’evasione ludica dalle condizioni asfissianti imposte dalla dittatura.

Romanzo postmoderno e sperimentale, centone di storielle e aneddoti in cui a volte si fa fatica a discernere i collegamenti, mostruoso cimento per i suoi traduttori, Harmonia caelestis è il testo più rappresentativo dello scrittore. Prende il titolo da una composizione musicale di un suo avo, e questa scelta rappresenta, per un romanzo che più disarmonico non si può, un contrappunto ironico, tale da segnarne fin dall’inizio la tonalità e determinarne la principale chiave di lettura. Il libro, diviso in due parti, racconta in 371 capitoletti (o tessere di mosaico) la storia straniata della famiglia Esterházy dal Cinquecento a oggi; l’autore aggiunge poi altri 201 paragrafi incentrati sulle complesse vicende della casata nel corso del Novecento. Fin dall’esordio, che è anche una sorta di programma poetico (“È di una difficoltà cane mentire senza cognoscere la verità”), siamo messi sull’avviso: non troveremo qui la storia di una famiglia raccontata comme il faut, dall’inizio alla fine, ma un’accozzaglia di frammenti che potrebbero essere anche letti à la Cortázar in tutt’altro ordine, senza che per questo la fruizione di chi legge cambi troppo. Un critico tedesco ha parlato, secondo me in modo brillante, di un caleidoscopio di situazioni che l’autore si divertirebbe a scuotere continuamente per creare nuovi punti di vista. Vero è che ci sono ben poche concessioni al lettore che non sia davvero motivato a districarsi in questo labirinto: lo dimostrano, per dirne una, le dieci pagine contenenti, senza alcun simulacro di storia o commento, il mero elenco o inventario dei beni mobili della famiglia, pagine che rispondono a un enciclopedismo e a un amore per le liste tipico di molta letteratura contemporanea (si veda anche l’esempio di Danilo Kiš).

Peter-EsterhazyLo stile è elettrico ed elettrizzante, allusivo, iconoclasta, sempre sorprendente nel suo ritmo rapsodico, a volte sublime a volte meno, ai limiti anche della scatologia, da cui l’autore riesce però sempre a riemergere con un colpo di reni che lo riporta a un più accettabile registro buffo. Non manca alla fine del volume un elenco dei cosiddetti “testi ospiti”, ovvero opere proprie e altrui che Esterházy ha saccheggiato, piegandole alle sue esigenze (e piegare significa qui anche copiare, rabberciare, manipolare, riciclare, da creatore che in quanto tale si reputa sovrano) e prendendosi en passant anche qualche accusa di plagio.

Il protagonista, infine, è uno e multiplo, incarna di volta in volta, spesso senza indicazioni temporali, i vari rappresentanti della famiglia; allo stesso modo uno e multiplo è il personaggio chiamato “il mio buon padre” (cui fa, meno sovente, da contraltare “la mia buona madre”), spesso vero e proprio eroe delle vicende trattate. Sullo sfondo delle settecento pagine fitte del libro ci sono tutte le traversie e le violenze di cinque secoli di storia visti attraverso gli occhi di volta in volta ingenui, preoccupati, severi, sconvolti e rassegnati di chi li ha vissuti. Visti e al tempo stesso ricordati, a mo’ di antidoto contro la dimenticanza e l’oblio su cui si fonda qualunque regime totalitario.

Ci si chiederà allora: perché una versione corretta a così poca distanza di tempo? Nel 1949, all’avvento dello stalinismo, la maggior parte dei rami della casata, che discende dagli antichi principi d’Ungheria, decide di riparare in Austria. Non così il padre di Peter, che sceglie invece di non lasciare il paese. Peter nasce nel 1950, si laurea, lavora, scrive e infine, una volta ultimato il romanzo e avendo chiesto di poter accedere ai documenti segreti del regime ormai defunto, fa una scoperta che gli cambia la vita. Scopre cioè che tra il 1957 e il 1980, lungo tutta la sua infanzia, adolescenza e giovinezza, suo padre Mátyás – l’eroe esplicito o implicito di gran parte del libro – per sopravvivere ha dovuto compilare rapporti, ovviamente confidenziali, per il governo comunista e per i servizi segreti. Per Peter il contraccolpo è notevole: la notizia getta una luce completamente diversa su tutta la sua esistenza, vissuta all’ombra di un genitore delatore e doppiogiochista. Avrebbe potuto nascondere tutto e curarsi le proprie ferite in privato, e invece decide di pubblicare i quattro dossier con gli scritti del padre, accompagnati dai commenti dei servizi segreti in calce e da un suo “diario della scoperta”, che fa loro da ironico e misurato controcanto. Com’è stato notato, nella seconda versione Harmonia caelestis diventa così (anche) il romanzo dell’avvenuta destrutturazione del padre, che nella prima era stata già accennata dalla pluralità di voci ma non ancora condotta alle estreme conseguenze. Ex matematico – nella seconda metà degli anni ’70 utilizzerà la sua laurea per lavorare presso il Ministero dell’industria -, Esterházy in un’intervista confesserà poi che la storia della doppia vita del padre è per lui la dimostrazione del fatto che in realtà due linee (in questo caso due vite) non hanno alcuna intenzione d’incontrarsi all’infinito, e che la realtà resta quindi assurda e inconoscibile. Sarà una coincidenza, aggiungerà scherzando, se nell’Ottocento la geometria non-euclidea è stata elaborata fra gli altri da un grande matematico ungherese, János Bolyai, o non scontiamo invece il fatto che vivere in una dittatura promuove la teorizzazione di mondi paralleli?

In Ungheria è uscito pochi mesi fa il suo ultimo libro, Diario del pancreas, in cui Esterházy affronta con coraggio il tumore che se lo sarebbe portato via in appena nove mesi. La sua luce, ironica e amante del paradosso, si è spenta. E non è forse un caso nemmeno che il nome della casata da cui tanto ha tentato di liberarsi, parlandone a proposito e sproposito, derivi da “esthajnal”: in magiaro il crepuscolo, dominato da Venere, la stella della sera.

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