Raoul Precht
Periscopio (globale)

Dopo Bufalino

A vent'anni dalla morte, c'è bisogno di rileggere Gesualdo Bufalino depurando la sua letteratura sulla malattia di vivere dalle polemiche suscitate dal (presunto) nuovo barocco

Bompiani ha da poco ristampato Diceria dell’untore, di Gesualdo Bufalino, autore venuto a mancare esattamente vent’anni fa. “Venuto a mancare” è in questo caso più di una formula retorica o sostitutiva di termini più diretti: Bufalino manca davvero alle nostre lettere, mancano l’eleganza e il cesello della sua prosa, la brillantezza dell’impasto linguistico, la particolarità della commistione fra sincerità espressiva e perizia retorica, l’attenta ricerca lessicale, il perfezionismo che diventa obbligo morale di tagliare, rivedere, riscrivere, disporsi a un sofferto labor limae.

Nel 1981 Diceria dell’untore vinse in modo tutt’altro che unanime il Premio Campiello, quando ai premi valeva forse ancora la pena di partecipare per farsi conoscere e per costruire – sia pur tardivamente, nel caso di Bufalino, che già aveva più di sessant’anni – un simulacro di “carriera letteraria”. Questo libro d’esordio (fortemente voluto da Sciascia per Sellerio) fu per molti lettori una folgorazione e per gran parte della critica un vero caso letterario. La trama è nota: in un sanatorio a pochi chilometri da Palermo un gruppo di malati di tubercolosi aspetta la morte. Fra loro è anche l’io narrante, un giovane reduce dalla guerra, che rende testimonianza dell’andamento delle cose in questa specie di prigione obbligata, sancendo la distinzione fra dentro e fuori, fra salute e malattia, fra il dinamismo della vita all’esterno del sanatorio e la stasi che regna all’interno di esso. Distinzione che porta presto all’infrazione, alla protesta; il protagonista s’innamora infatti di un’altra giovanissima quanto misteriosa paziente, Marta, e con lei prova a scardinare le regole del sanatorio, prima incontrandola in città in occasione delle rare libere uscite, poi con un tentativo di fuga, fino allo scioglimento tragico della vicenda amorosa. Mentre Marta muore in un alberghetto sul mare, e dal cognome finalmente svelato – Levi – si evince la sua storia, il protagonista guarisce e torna a vivere fra i sani, dopo, come ebbe a scrivere in seguito lo stesso Bufalino, “un noviziato indimenticabile nel reame delle ombre”, per cui la scoperta della morte è a un tempo “sverginamento lacerante ma anche acquisto arcano e privilegio geloso”.

gesualdo bufalinoUno dei suoi numerosi, graffianti aforismi recita: “Nascere è umano, perseverare è diabolico”. E a questa riflessione, tutt’altro che un calembour, sembra ispirarsi anche l’opera successiva, da Argo il cieco a Le menzogne della notte, passando per i racconti de L’uomo invaso. L’ossessione della morte quale approdo di una vita insensata, inconoscibile e incomprensibile si esorcizza in parte attraverso lo stile barocco, con qualche punta, diremmo, anche di liberty, ma soprattutto – e ben al di là della cifra stilistica – per mezzo di una riflessione serrata su quella che Bufalino a un certo punto definisce, parlando proprio del protagonista del suo primo libro, una “educazione alla catastrofe”. Il male di vivere, il senso d’ingiustizia derivante dall’esser nati, l’obbligo di recitare sul palcoscenico della vita, la scrittura quale simulacro o “protesi” della vita stessa, la morte come preoccupazione costante e mèta o conclusione oggettiva di qualsiasi organismo vivente: tutti questi elementi non sono certo nuovi nel Novecento, sono stati anzi già declinati in molti modi e da numerosi autori, ma lo scrittore di Comiso riesce ugualmente a imporre una sua originalità e una sua coerenza espressiva. E dimostra, nei pochi anni che intercorrono fra il 1981 e il 1996, fino all’ultimo romanzo lasciato incompiuto – da appassionato scacchista – sull’anomalo campione di scacchi José Raúl Capablanca, Shah Mat, che non siamo di fronte a un auctor unius libri, ma a uno scrittore complesso, in grado di costruire un sistema espressivo perfettamente funzionante e onesto anche nelle sue fragilità.

Ciò nonostante, non si può certo dire che – a differenza dell’amico fraterno Sciascia, per esempio – il Nostro sia oggi particolarmente studiato e dibattuto. Cosa ci resta del fenomeno Bufalino e dell’opera che gli ha dato la notorietà?

Divenuto film nel 1990 per la regia di Beppe Cino e con uno stuolo di attori molto affermati, poi ridotto per il teatro dal Teatro Stabile di Catania (nel 2012, con Luigi Lo Cascio e la regia di Vincenzo Pirrotta), Diceria dell’untore, come tutti i grandi romanzi, si presta anche alla rielaborazione, a patto che si mantengano comunque distinti i piani e che si rispettino le peculiarità del testo narrativo. Ma lasciando da parte la traduzione verso altre forme d’arte, del tutto legittima, dobbiamo chiederci invece cosa sia ancora attuale e per noi veritiero, ossia “parlante”, nel testo originale. In altri termini, il suo male di vivere, così vicino a quello dei poeti maudits o di Kafka, è ancora un grimaldello valido per scardinare la nostra realtà?

Il suo protagonista sfugge all’esperienza della morte, che l’ha segnato, “per chissà quale disguido o colpo felice di dadi”, e si ritrova in una “vita nuda, uno zero di giorni previsti”, riducendosi a “essere uno dei tanti della strada, che amministrano umanamente la loro piccina saviezza d’alito e d’anni”. La morte è tutt’al più rimandata, e la vita (del personaggio, come dello scrittore) sarà consacrata a illuminare, per quanto possibile, il grande interrogativo che ci aspetta tutti.

Dell’uomo e della sua vicenda Bufalino aveva una visione essenzialmente astorica e quindi soggettiva, oltre che antisentimentale. Ma il romanzo, che inizia a scrivere già nel 1950, è al contempo frutto dello smarrimento susseguente alla caduta del fascismo e alla guerra. La mancanza di punti di riferimento e il crollo di valori fino a poco prima considerati poco meno che eterni è l’orizzonte entro il quale si muove tutta l’opera. Nello scrittore che più vorrebbe astrarsi dal mondo e dalla storia, insomma, quest’ultima si prende una sottile rivincita, insinuandosi nel testo, non fosse che come filtro. Si è parlato poi di decadentismo e perfino di melodramma, di una Marta che con la sua malattia sarebbe parente di Violetta o Mimì, o dell’inevitabile scontro fra Eros e Thanatos, con il primo che si costituisce quale principio salvatore del protagonista. Tutte interpretazioni possibili, autorizzate, a volte persino brillanti, nessuna delle quali sembra esaurire la valenza dei testi bufaliniani. Passata ormai l’ubriacatura degli anni Ottanta, tuttavia, e l’infatuazione per certo turgore barocco del linguaggio, sarebbe ormai tempo di (ri)leggerlo per quanto ha davvero scritto, e anche, non da ultimo, per le premonizioni che ci ha lasciato circa un presente da cui illusioni e speranze sono bandite. Come ci avverte per esempio in una poesia della raccolta L’amaro miele: “Ora pago, mi alzo, questo giorno è sbagliato, / questo e gli altri di prima, sono un uomo infelice.”

Del resto, come potrebbero andare altrimenti le cose se, come recita un altro aforisma dal sapore pascaliano, “Dio è morto creandoci, noi siamo un’opera postuma”?

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