Luigia Striglioni
Raccontare il corpo/3

Anni sinistri

«Tony è l’ ultimo di sette figli. Mia madre mi ha raccontato che è nato alle 6 di mattina e l’infermiera del turno di notte, nella fretta di smontare, gli aveva tirato via il muco inserendo troppo a fondo l’aspiratore nelle piccole narici, sfondandogli un timpano»

Sabato scorso Tony ha compiuto 16 anni. È stato un compleanno strano: è andato a finire sul giornale.

Tony è mio cugino, ha giusto due anni più di me ed è anche il mio migliore amico.

Qualche settimana fa suo padre, il mitico zio Mario, che per hobby fa il rigattiere, ha preso in affitto due stanze a piano terra nel lato sghembo di piazza Cavour, per tenerci stipata in ordine, dice lui, la roba vecchia che espone ogni primo sabato del mese alla fiera dell’antico.

È lì che sono andata a metà mattina a portare il mio regalo a Tony: sapevo di trovarlo con zio Mario a rinfrescare le tinte delle pareti, giacché la puzza di muffa che c’era non lo convinceva per niente.

Tony ha smesso di studiare più o meno a dodici anni, ha preso la licenza media a tozzi e bocconi e poi ha iniziato a lavorare con il padre da imbianchino; io mi diverto a chiamarlo “ il pittore” un po’ perché da noi, in dialetto, si usa così, un po’ perché è uno che si vanta di essere bravo a miscelare i colori.

Ho incrociato lo zio che usciva davanti al portoncino; gli ho fatto segno di tacere e sono entrata di soppiatto.

Tony stava sulla scala a libretto dentro una stanza vuota, con un tavolo al centro: scrutava di sbieco tre o quattro tonalità di giallo.

Ho tenuto le mani dietro la schiena e ho fatto un balzo; quando è sceso gli ho messo sotto il naso un cofanetto di cd di Jim Morrison.

Lì per lì è rimasto interdetto.

“Tanti auguri a te, tanti auguri a teee…” gli ho cantato.

Tony mi ha abbracciato forte e ha iniziato a singhiozzare. Allora, in silenzio, gli ho accarezzato la schiena ossuta con le mani aperte, allargandole in piccoli cerchi, come facevo con mia sorella piccola che si lamentava nel sonno per i brutti sogni, dondolando leggermente sulle gambe.

“ Ho paura…” ha sussurrato sulla mia spalla “Non lo so se ce la faccio…”

* * *

Tony è l’ ultimo di sette figli. Mia madre mi ha raccontato che è nato alle 6 di mattina e l’infermiera del turno di notte, nella fretta di smontare, gli aveva tirato via il muco  inserendo troppo a fondo l’aspiratore nelle piccole narici, sfondandogli un timpano.

Perciò, già dalle prime ore di vita, il suo orecchio sinistro vomitava pus verdognolo e Tony, attaccato al seno, piangeva come un ossesso.

Per rimettere in sesto quell’orecchio, negli anni a venire, aveva subito vari interventi, ma senza risultati.

Quando stava a casa  Tony faceva sempre la lagna: puntava i piedi perché non voleva andare a scuola, si buttava in terra urlando se non voleva fare l’aerosol e si attaccava come una scimmia alle sottane della mamma che, per non sentirlo frignare, lo accontentava sempre.

Era brutto, secco come un chiodo, capriccioso e introverso. Ma io gli volevo tanto bene: mi faceva tenerezza e forse pure pena.

Tony ha pochissimi ricordi dei suoi primi dieci anni di vita.

Tra i primi che ho io c’è una visita a lui in ospedale la sera della vigilia di un Natale; d’altra parte ha trascorso più tempo lì che a casa e ogni volta che andavamo a trovarlo, mentre papà parlava fitto con la zia, ci davano il permesso di aprire una scatola nuova di cioccolatini e di assaggiare quelli che volevamo, a patto che non li interrompessimo di continuo.

Con me Tony parla di tutto quello che gli passa per la testa, ma una certa cosa è riuscito a raccontarla solo l’estate scorsa, una mattina che passeggiavamo in bici.

“Mi sono ricordato un fatto”, così mi ha detto. E ha vuotato il sacco.

Una sera di otto anni fa, dopo una sua ennesima crisi isterica a tavola, la forchetta impugnata dal fratello maggiore gli era rimbalzata nell’iride sinistra, la pupilla aveva visto le stelle, poi più niente.

Noi, all’epoca, sapemmo da zio Mario che Tony si era lesionato l’occhio in una brutta caduta  per l’urto contro uno spigolo:  allora iniziò l’ennesima via crucis di visite, diagnosi e ricoveri ospedalieri che lasciò comunque la pupilla al buio, tale e quale all’orecchio.

I periodi di convalescenza erano un inferno. Quando Tony tornava a casa e vedeva dalla finestra i ragazzini delle case popolari giocare a pallone riprendeva a fare il matto, digrignava i denti e dava calci alle porte perché lui non poteva. Cominciò a scendere in cortile con la benda da pirata sull’occhio e un tappo di ovatta nell’orecchio solo quando alla mamma caddero di botto quasi tutti i capelli.

Noi femmine, allora, stavamo sui muretti a giocare con le Barbie e ogni tanto davamo un occhio a quei ragazzotti ciccioni e mingherlini che correvano come esaltati dietro al pallone, bestemmiavano come turchi e si sputavano in faccia.

Alcuni un po’ più grandi, alla fine delle partite, tutti sudati salivano per le scale al piano sopra a quello di Tony dove c’erano due gemelle di tredici anni che si facevano accarezzare un po’ le tette e sapevano baciare con la lingua. Sempre che i loro genitori fossero al lavoro, tanto la nonna era sorda e non li sentiva neppure entrare.

Mio fratello invece, che aveva già il motorino, scendeva la rampa che portava al fondaco e giù, tra i garage, si infilava sotto una serranda alzata a metà dove lo aspettava la più carina dell’isolato, che di anni ne aveva quindici e che, se ci sapevi fare, ti accarezzava dentro ai pantaloni.

Quando gli altri scomparivano a frotte, di solito Tony rimaneva impalato in mezzo al cortile; a volte lo prendevo per mano e lo trascinavo con me a spiare mio fratello giù al fondaco, dove arrossiva solo a sentire quei due che  ansimavano dietro la serranda.

Un giorno che li stavamo spiando Tony scappò via; lo rincorsi fuori e lui mi disse che non lo avrebbe fatto più, che si vergognava e che a lui non importava niente di quelle scemenze d’amore perché lui era sicuro di non essere normale.

Quando gli chiesi perché cominciò a tremargli il mento, piantò un pugno sul muretto e disse che il suo coso era piccolo e chiuso. Poi girò i tacchi e si mise a correre dietro al pallone.

Io raccontai tutto alla sua sorella maggiore.

Due giorni dopo la mamma lo portò a fare un controllo da un professore, così diceva la zia.

Quello, mi raccontò poi Tony, lo aveva fatto stendere sul lettino e gli aveva palpato la pancia, il coso e il resto.

Tony era abituato a essere rigirato come un calzino. Ma tempo tre secondi, aveva sentito rompersi qualcosa sul pisello: un filo infuocato era corso giù fino alle chiappe e risalito fino alle budella, facendogli rattrappire palle, gambe e piedi.

Aveva sentito nella stanza l’eco del suo urlo da porco sgozzato. Ed era svenuto.

Dopo, per almeno due settimane, non era più sceso a giocare: i fratelli dicevano che non faceva la piscia perché gli bruciava tutto e la mamma teneva aperto mezz’ora il rubinetto del bidet per convincerlo almeno a provarci, sennò sarebbe schiattato gonfio come un rospo.

Quando si sentì meglio i fratelli, i cugini e i bambini del vicinato ricominciarono a portarselo in giro con loro, perché era divertente fare gli scherzi a Tony: credeva a tutto e capiva poco.

Un pomeriggio venne paonazzo da me e ci chiudemmo nella mia cameretta: a casa sua i fratelli e i loro amici avevano bevuto la birra e poi avevano giocato a fare il trenino. Avevano invitato pure lui.

Tutti si erano tolti pantaloni e mutande, poi si erano inginocchiati per terra uno davanti all’altro; quello dietro allargava il culo a quello davanti e gli saliva sopra. Lui non ci aveva capito molto ma ad un certo punto aveva sentito qualcosa di duro dietro le chiappe e d’istinto le aveva strette forte.

Allora si era alzato di botto ed era scappato via, gli veniva il vomito.

Ecco, si vergognava come un ladro. Non era riuscito a fare un bel niente perché non era normale: che avrebbero pensato gli altri? Non lo avrebbero chiamato più. Era un povero sfigato.

* * *

A tutto questo ho ripensato, sabato mattina, mentre Tony singhiozzava davanti al suo regalo di compleanno.

Da un po’ non si confidava più con me. Lo ha fatto ancora una volta tra le lacrime: ha iniziato a farsi le canne, a impasticcarsi e a frequentare certi posti.

“Dai, che ce la fai anche stavolta”, gli ho sussurrato nell’orecchio buono.

Ci saremmo rivisti all’una, a casa sua. La zia aveva preparato, a sua insaputa, un pranzo con dieci portate per festeggiarlo. Una festa a sorpresa.  Ma Tony non è mai arrivato.

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Luigia StriglioniSono nata a Pescara il 26/2/1970. Vivo a Teramo con mio marito, i nostri due figli, una cagna e due gatti. Sono laureata in lettere antiche. Insegno in un liceo. Ho frequentato il Master di Storytelling “Fondamenta” alla scuola Holden di Torino nell’anno 2010/2011.

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