Ilaria Palomba
Una riflessione amara sulle dipendenze

Il sogno e l’incubo

Se i modelli sociali sono il self made man, il tronista di “Uomini e donne”, i personaggi di “Gomorra“, chi la svolta facile e riesce a fregare tutti, cosa ci aspettiamo che inseguano i ragazzi abbandonati a se stessi in quartieri brutti come incubi fantascientifici?

Ultimamente proliferano overdose di minorenni: penso alla morte della sedicenne Sara Bosco al Forlanini di Roma, che aveva concesso il suo corpo in cambio di una dose. Ma anche ai recenti arresti a Tor Bella Monaca, sempre a Roma, dove un gruppo di spacciatori di coca era capitanato da un pusher appena ventiquattrenne. Poi, arriva l’estate, cominciamo a prepararci alla diffusione mediatica delle morti in discoteca. Se ne fa sempre un gran parlare. E il più delle volte senza cognizione di causa. Come esistesse il modello unico del «drogato», come non esistessero le persone, con le loro storie, le loro problematiche, la loro umanità, nonostante tutto.

Quando si parla di tossicodipendenze bisogna stare attenti a fare le giuste distinzioni, tra tipi di sostanze, prima di tutto; tra tipi di ambienti, poi. Se parliamo di droghe pesanti, ancora una volta, c’è da distinguere tra cocaina ed eroina, tra uso occasionale e uso continuo. E in che modo e perché se ne faccia tale uso. Qui ci colleghiamo alla questione dell’ambiente d’appartenenza e in particolare delle periferie. Per chi trascorre un sabato al mese in club o rave è evidente che la questione non sia la stessa rispetto a chi abita a Tor Bella Monaca, o nelle periferie di qualunque città, abbandonato a se stesso da genitori magari a loro volta spacciatori, criminali o, perfino, se si è figli di genitori coscienziosi ma che dedicano l’esistenza al lavoro (penso alle catene di montaggio, alle fabbriche chiaramente) per cui fagocitati dallo stesso ruolo che dovrebbe permettere loro una vita dignitosa, il risultato sono figli praticamente orfani, allo sbando, che frequentano gli unici luoghi di convivialità delle periferie: i parchetti, i giardinetti, dove sugli stessi scivoli passano bambini e spacciatori. A tal proposito consiglio un acuto e politicamente scorretto, com’è giusto che sia, reportage dello scrittore Massimiliano Santarossa sulle periferie: http://www.ultimavoce.it/piedi-sulla-periferia-ditalia/#.V16BuWosgWo.facebook

droga-tor-bella-monacaL’età media per cominciare a spacciare si è abbassata probabilmente per diversi motivi: l’assoluta indifferenza delle scuole nei confronti dei cosiddetti «soggetti difficili» ne è uno, l’atmosfera punitiva che c’è verso chi mostra di essere diverso dagli altri, ma neanche davvero punitiva quanto di sdegno e indifferenza, fa molto, moltissimo. Poi, di certo, il proliferare di fiction dove la figura del criminale è esaltata come divo cinematografico non è un toccasana: si sa che i ragazzi tendono a imitare i modelli più grandi che considerano vincenti. In assenza di genitori e insegnanti, i veri maestri diventano dunque i media, trasmissioni televisive, come quelle di Maria de Filippi, fiction come Gomorra e Romanzo Criminale, canali Youtube in cui passa il messaggio che basta fare faccine idiote, fingersi comici dicendo idiozie o non dicendo assolutamente nulla, per mettersi in mostra ed entrare nella sfera dei beati procacciatori di like e guadagno facile.

D’altronde, sulla questione criminalità e media, credo che già nel suo primo libro, che ammetto di non aver letto per intero (in quanto non è il tipo di letteratura che mi coinvolge personalmente), Roberto Saviano abbia fatto un doppio gioco, da un lato denuncio, dall’altro alimento il mito. Forse bisogna anche iniziare a parlare d’altro.

Parliamo per esempio della questione di classe. Da che esistono le sostanze, c’è sempre chi muore giovane e devastato e chi resiste fino alla vecchiaia continuando a usare ogni genere di stupefacente, e magari se ne serve anche per la propria creatività (penso a Baudelaire, Burroughs, Iggy Pop, Warhol, e molti altri). Parliamo allora di differenza di classe: mi sembra opportuno. I ricchi vivono, si depurano, si operano, restano giovani per sempre. I poveri muoiono. Chi non ha gli strumenti di comprensione, le cure mediche necessarie, le informazioni per distinguere una dose di morfina da un krokodil, chi non ha le conoscenze per arrivare, nella catena di montaggio dello spaccio, al tassello più vicino al produttore, finisce nelle derive dell’overdose, dell’AIDS, del carcere, delle gravidanze non volute (per cui mettere al mondo un ulteriore dannato che molto probabilmente ripeterà il percorso di perdizione dei genitori), del disfacimento psicofisico, della morte prematura. Infine chi compra le sostanze nelle piazzette, nei parchi, all’entrata delle discoteche, va incontro al rischio anche perché finché le droghe restano illegali non c’è un vero controllo sul taglio e sulle dosi. E, a meno che non si è amici fraterni dei pusher, non si sa assolutamente da dove provenga quella droga. Qui consiglio un’intervista alla sociologa Claudia Attimonelli, in merito alla questione se chiudere o meno le discoteche, che di anno in anno si ripresenta nel periodo estivo: http://bari.repubblica.it/cronaca/2015/08/12/news/-salento_droga_nelle_disocteche_la_sociologa_basta_ipocrisie_basta_la_prevenzione-per_non_causare_morti_-120850498/

Va incontro a percorsi senza via d’uscita chi ne fa uso per disperazione e non per volontà di conoscere. La disperazione ti porta all’annullamento, a una sorta di suicidio inconsapevole. Finisce sempre che diamo la colpa alla sostanza, che invece è solo il mezzo che molti ragazzi usano per uscire da uno stato di anomia, solitudine estrema, diversità, frustrazione. Cerchiamo invece di giungere alla radice del problema. Perché si arriva a certi livelli di disperazione, in cui l’unica salvezza possibile è la fuga dalla realtà? Quali sono le motivazioni sociali e culturali che l’hanno prodotta? Non cerchiamo i colpevoli ma le cause e le possibili soluzioni.

Come dicevo, c’è un’enorme differenza tra l’utilizzo consapevole delle sostanze, la riduzione del danno, che prevede tutta una serie di pratiche a partire da legalizzazione e controllo medico su tutte le droghe, e invece lo sballo disperato come avviene nelle periferie estreme, in cui le sostanze sono l’unico mezzo di comunicazione che questi ragazzi imparano, insieme alla violenza, all’abuso sull’altro, e alle dimostrazioni di forza. Ma cosa ci aspettiamo? Se il modello sociale è il self made man, se il modello sociale è uno su mille ce la fa, se il modello sociale è il tronista di Uomini e donne, se il modello sociale sono i personaggi di Gomorra, se il modello sociale è chi la svolta facile e riesce a fregare tutti, cosa ci aspettiamo che inseguano questi ragazzi abbandonati a se stessi in quartieri brutti come incubi fantascientifici? E poi, vogliamo parlare delle architetture delle periferie occidentali? Sembra che gli architetti si siano messi di proposito a cercare la bruttezza e l’orrore per trasformarlo in cemento. Come si può pretendere da chi abita un incubo di avere dei sogni?

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