Andrea Carraro
Analisi di un classico da rileggere

L’arte di sopravvivere

«Lettera alla madre» di Edith Bruck è un capolavoro sull'assenza di senso della vita. Il romanzo di una “reduce“ sull’impossibilità di vivere davvero dopo Auschwitz

Edith Bruck – scrittrice ungherese, ma italiana d’adozione – ha scritto molti libri importanti. Ma io voglio parlare qui solo di un suo lungo racconto, o breve romanzo, Lettera alla madre (si trova in Privato, Garzanti, fra gli altri). Sono emerso dalla lettura di Lettera alla madre di Edith Bruck con il nodo alla gola. Ma non il classico nodo alla gola per la condivisione del dolore, della sofferenza di un nostro simile ben raccontata, è la commozione che ti dà qualche volta l’arte quando senti che ha affondato il bisturi ben oltre i sentimenti e le emozioni, fino alla radice dell’essere.  Non so esprimermi diversamente. Lettera alla madre non è e non vuole essere un classico romanzo concentrazionario su Auschwitz, sulla tragedia della Shoah, come lo sono per esempio le opere altissime di Levi, di Pahor, di Imre Kertész ecc. ciascuno a proprio modo, o i film sull’olocausto tipo Schlinder’s list o Kapò ecc.. No, Lettere alla madre di Edith Bruck è, dall’inizio alla fine, una dolente meditazione sul senso (sulla mancanza di senso) del sopravvivere ad Auschwitz e alla deportazione, con la vivida e corporea consapevolezza del Male Assoluto, che non si può cancellare né consolare in nessun modo: non con la fede (Edith non crede in Dio, questione che rappresenta il nucleo pulsante del suo scontro con la madre – e tanto più non riesce a credere dopo l’esperienza del lager), né è possibile nutrire alcuna illusione su un progresso morale dell’umanità («l’Olocausto non ci ha resi migliori»), né con nessuna ideologia palingenetica, o etnico-religiosa; anche se affiora a un certo punto una pallida utopia di giustizia sociale che riposa sull’uguaglianza universale, che la scrittrice  esprime quasi con ritrosia e pudore. Ed è forse ciò che la tiene in vita nonostante tutto – insieme alla scrittura.

edith bruckNon è affatto casuale che nel testo venga spesso evocata la figura di Primo Levi, mai citato direttamente per nome, come una specie di simbolo, di stella polare per tutti i superstiti dei campi di sterminio nazisti, Primo Levi che finisce per suicidarsi lasciando Edith, sua amica e confidente di tante telefonate e qualche incontro, sgomenta anche se non del tutto incredula avendo consapevolezza della depressione che attanagliava lo scrittore sodale, l’amico, di cui peraltro egli spesso si lamentava sia pure con il suo noto riserbo da piemontese.

Dunque, un romanzo di una reduce di Auschwitz, scampata per un soffio alla morte e alle selezioni di Mengele, che ha perso entrambi i genitori nei campi  (la madre gasata a Auschwitz non lontano dalla sua baracca, il padre, morto poco prima della fine della guerra nel campo di Dornhau) sull’impossibilità di vivere davvero dopo Auschwitz, sull’attrazione costante per il suicidio, sull’aldilà (o meglio sull’assenza di un qualunque aldilà), sul mito ebraico, sul sionismo, sull’infanzia di stenti in Ungheria ecc. Edith scrive alla madre per esprimerle, senza reticenze e autocensure, tutto quello che avrebbe voluto dirle se anche lei fosse sopravvissuta a Auschwitz, provando a instaurare un impossibile dialogo post mortem. Non si tratta – si badi – di un semplice sfogo sentimentale per una madre che non c’è più e ci manca, anche per il modo atroce in cui ci è stata strappata. È di più, è un groviglio di sentimenti e ideali contrastanti. È amore e rabbia. Edith, a momenti, sa essere anche severa con la madre, aggressiva, giudicante, la accusa di averla trattata con rudezza quando era bambina e ragazza, di non aver mai compreso e rispettato la sua vera natura, votata a un laico e razionale scetticismo, a un gioioso e libero rapporto con la natura, con gli animali, con i propri simili, soprattutto se “diversi”. Le rimprovera la sua fede fanatica che spesso la rendeva distante, inaccessibile, cieca di fronte alle richieste d’amore di lei bambina. Edith non può fare a meno di ricordare con quanta assolutezza, con quanta alterigia, sua madre cercava di imporle la propria visione del mondo e dell’esistenza in ubbidienza al credo ebraico. Ricorda i ceffoni, le punizioni (a letto senza cena), le filippiche, i sarcasmi sul suo leggere libri, scrivere poesie, cercare di distinguersi attraverso l’arte e la cultura.

Assieme alla madre, emergono altre figure memorabili: il fratello, la sorella, anche lei reduce da Auschwitz, il poeta Nelo Risi, marito della scrittrice, riconoscibile nel personaggio di Gabriele, e di altri familiari o amici. Però ho l’impressione che Lettera alla madre, pur affollato di personaggi, non diventa mai un “racconto corale”, perché il punto di vista di Edith non viene mai meno. Ma, ripeto, è soprattutto il confronto-scontro con la madre che brilla in queste pagine e che le rende universali. Con il suo atto d’accusa più grave, che suona implacabile: «Da quattro anni eravate in attesa dell’alba fatidica. Quattro anni di notizie di massacri nuovi, inarrestabili, mentre ci guardavate crescere per niente, per morire. (…) Se sapevate che eravamo condannati perché non eravate più dolci, più amorosi, più permissivi, con noi figli vittime innocenti».

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