Anna Camaiti Hostert
Cartolina dall'America

Chi vota per Trump?

All'inizio solo la white trash (feccia bianca) ignorante e razzista sosteneva Trump. Ma, poi, la spettacolarizzazione e la lunga teorie di menzogne del miliardario gli hanno aperto i cuori del ventre molle del Paese. Con tutti i rischi del caso

Per la quantità di affermazioni scioccanti (ogni giorno ne spara a una più grossa di quella precedente) che sanno più di reality show che di politica, continuiamo a porci la domanda: «chi può votare per Donald Trump alle presidenziali americane?». Eppure, a dispetto del nostro essere degli europei schizzinosi (seppure, soprattutto noi italiani non dovremmo davvero scandalizzarci, in quanto anche Berlusconi a suo tempo non scherzava quanto ad affermazioni scioccanti), non solo la sua base elettorale diviene sempre più proteiforme, ma si amplia a vista d’occhio tanto da  preoccupare la sua avversaria democratica.

Prima di cercare di rispondere a questa domanda che ogni giorno si fa sempre più complicata, vorrei però fare una considerazione che può aiutare a rispondere al quesito e che riguarda un termine che in politica non amo molto “la narrativa” ma che gioco forza sono obbligata a tirare in ballo. E che userò da qui in avanti virgolettato.

Alcune settimane fa Clarence Page, noto editorialista del Chicago Tribune, ha scritto che c’è una relazione tra la messa in onda della serie televisiva The People v. O.J. Simpson. American crime story  e la campagna elettorale di Donald Trump. «I processi – scrive Page – come le campagne elettorali sono dispute tra narrative che duellano. La parte con la storia migliore vince, dice il personaggio di Johnnie Cochran, mastermind degli avvocati difensori del famoso giocatore di football nella serie mandata in onda da Fox». E più avanti riportando le parole di un altro avvocato del collegio di difesa scrive: «I media, la gente, anche loro vogliono una narrativa. Ma vogliono che sia intrattenimento… Se ci deve essere il circo dei media è meglio essere il direttore del circo. Ventuno anni dopo il processo Simpson, l’era dei cosiddetti reality show ha portato al successo della campagna presidenziale di Trump, dando un esempio di come si può arrivare lontano se sei ricco, famoso e abbastanza temprato da sostenere qualsiasi imbarazzo». Dunque, proprio grazie alla “narrativa” che intrattiene meglio il pubblico oggi si vincono le elezioni in America: attraverso di essa si allarga il consenso elettorale.

Ci sono tuttavia tre steps da seguire per arrivare a questo risultato. «La prima – scrive Page – consiste nel dire qualcosa di scandaloso che rompe le convenzioni e le regole.  E mentre la gente ancora scioccata comincia a reagire all’ultima battuta oltraggiosa gli se ne dice un’altra. La seconda nell’incoraggiare amici e seguaci ad andare sui social network e a rispondere ai messaggi costruendo una comunità di sostenitori resa impenetrabile da ogni altra informazione che è in disaccordo con le spesso inaccurate affermazioni di Trump. La terza: ogni volta che hai bisogno di attenzione (per esempio poco prima delle primarie o dei caucus) nell’aumentare la visibilità sia rispondendo a un attacco, sia semplicemente cambiando registro, sia dicendo qualcosa di oltraggioso e facendo in modo che il circolo si metta in moto di nuovo».  E quasi letteralmente The Donald, personaggio imprevedibile che non conosce limiti, segue questa strategia. Per questo ha continuato e continua ad attirare molte persone ampliando la sua base elettorale. Le sue affermazioni cambiano a seconda della morfologia politica degli stati in cui si trova e dell’evento del momento. Avendo presente che la sua “narrativa” si rivolge a un’audience che cambia di volta in volta, ma che è tuttavia sempre avida di essere intrattenuta Come in un vero e proprio reality show.

All’inizio si diceva che il nocciolo duro della sua base elettorale fosse solo quella white trash (feccia bianca) di basso profilo culturale, con basso reddito e con un basso livello di istruzione. Perché di questa facevano parte quei cittadini che dopo la crisi del 2008 avevano perso il lavoro a causa, dicevano, specie nel sud, dell’ingresso dei messicani. Minoranza etnica che a suo tempo Trump ha fustigato con parole di fuoco, offensive e razziste, dando loro la colpa di avere rubato il lavoro agli americani e di essere «solo ladri, spacciatori di droga e stupratori». Ma, a quanto pare, questa base si è ampliata se, nello stato di New York, il suo stato, in aprile alle primarie repubblicane ha conquistato il 61% dei voti totali vincendo attraverso tutto lo spettro demografico.

E anche per quanto riguarda la caratterizzazione degli elettori del magnate americano come «poco istruiti» anche qui si registra un cambiamento. Come dice The Economist, il 16% dell’elettorato repubblicano ha un titolo di scuola superiore e costituisce un quinto dell’elettorato di Trump, che ha tra i laureati e i post laureati un supporto del 43%. E anche per il reddito le cose stanno cambiando. Sconfiggendo così l’idea iniziale che solo i poveri e gli ignoranti lo votano. Da un exit poll della Rand Corporation viene fuori però che in generale la base dell’elettorato di Trump è rappresentata da coloro che si considerano dei “senza voce”. E questo lo si vede nel paragone con uno dei suoi concorrenti più agguerriti, Ted Cruz. Trump vince quest’ultimo proprio tra gli elettori che credono che «gli immigrati sono una minaccia per i valori e le abitudini americane», ma anche tra quelli che favoriscono fortemente l’aumento delle tasse ai ricchi. A conferma di ciò, addirittura l’85% degli elettori che sono d’accordo con l’affermazione «le persone come me non hanno voce in capitolo su quello che fa il governo» preferiscono Trump. Dunque scrive Derek Thompson su The Atlantic: «Il senso di impotenza e di mancanza di voce è un elemento di predizione del supporto elettorale a Trump più veritiero di quello che può essere rappresentato dall’età, dalla razza, dall’istruzione dal reddito dall’atteggiamento nei confronti dei musulmani, degli immigrati illegali o dell’identità’ ispanica».

A questo si aggiunge un partito repubblicano in grande confusione. Prima ostaggio dei Tea party e dunque diviso, continua a perdere consensi tra gli elettori delle minoranze etniche e non sa come affrontare il fenomeno The Donald e la spettacolarizzazione dell’arena politica. Trump, allo stesso tempo uomo d’affari e grande comunicatore la cui “narrativa” è di intrattenimento e non politica, almeno come l’abbiamo intesa fino a ora, crea un grosso problema. Un vecchio film del 1996 Big Night racconta la storia di due fratelli italiani che negli anni ’50 emigrano negli Stati Uniti per portare oltreoceano la cucina italiana e falliscono turlupinati da un americano di origini italiane che spiega loro che nel business vige una regola d’oro «si deve poter essere tutto ciò che si deve essere quando il momento lo richiede». Nel caso di Trump, a questa va abbinata l’altra regola che più recentemente è entrata in auge specie grazie alla televisione: quella che prevede una “narrativa” capace di accaparrarsi il pubblico attraverso forme di intrattenimento. Anche per chi fa politica. E Trump da uomo d’affari e di spettacolo allo stesso tempo sa che queste regole possono garantirgli un successo di cui è preoccupata Hillary Clinton.

Sconfitta di recente da Bernie Sanders in West Virginia, l’ex segretario di Stato si preoccupa per gli ultimi sondaggi che la mettono in pericolo nei tre Stati cruciali di Florida, Ohio e Pennsylvania. E comincia a cambiare anche il suo modo di proporsi e di raccontarsi, la sua “narrativa”. Mi viene in mente il bel discorso provocatorio all’inizio della serie televisiva The Newsroom in cui uno splendido Jeff Daniels anchorman di una televisione nazionale americana ricorda a tutti a quali regole etiche qualsiasi professione sia essa quella dell’informazione che quella della politica debba obbedire in un paese democratico che voglia definirsi tale. Queste regole però sembrano tutte lontano dall’intrattenimento. Che va benissimo, ma in altri contesti lontani da quello politico

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