Danilo Maestosi
Una mostra curata da Enrico Lombardi

Roma a colori

Giulio Catelli, un giovane e promettente artista, ritrae Roma come spazio di sogno, attraversata da una sorta di ebrezza che distorce ogni asse prospettico: colonne, porticati, incavi di murature sono tutti inclinati...

Giulio Catelli è un giovane autore che ama la pittura. Almeno quanto ama Roma, la città dove è nato 33 anni fa e dove è tornato per laurearsi in storia dell’arte e iniziare una promettente carriera d’artista. L’idea di abbinare queste due passioni è venuta a Enrico Lombardi, un gallerista di rango che da tempo si sforza di incanalare il suo talento, e che gli ha messo a disposizione la nuova sede che ha aperto in via di Monte Giordano 40 per una mostra a tema. E lo ha sguinzagliato in giro per la città, cavalletto in spalla a cercare ispirazione dal vero e en plein air come i grandi maestri di tradizione.

Una sfida piena di rischi, il misurarsi con un immaginario così sovraccarico e consolidato. Primo fra tutti quello di ripetere il già detto. Quasi inevitabile per un ragazzo che coltiva questi due amori con un cuore antico e ci si destreggia come un corteggiatore vecchio stampo che con ostinato pudore insegue più avventure d’anima che di istintiva carnalità. Giulio Catelli ha aggirato in gran parte il pericolo proprio grazie a questa inconfondibile vena romantica. Facendo suo lo sguardo di un viaggiatore da Grand Tour. Le stesse inquadrature di rovine solenni e immutabili, lo stesso affascinato rispetto, le stesse geometrie di paesaggio, lo stesso modo di catturare statue, colonne, muri, capitelli come fantasmi che potrebbero da un momento all’altro svanire, lo stesso modo di declinare la bellezza delle pietre e del verde depurandola da ogni presenza umana, ogni irruzione di presente. Ma senza quasi mai scivolare nella maniera e nelle smancerie. Asciugando ogni visione così come ha asciugato e resa opaca la sua tavolozza.

Giulio Catelli, Statua dietro il cancello I 2015, olio su  tela  35x50 cmPochi colori ricorrenti. L’ocra in tutte le sue possibili varianti. Il bianco, il nero sfumato dell’ombra, il grigio dell’asfalto, il verde acceso alternato al verde cupo per registrare alberature e macchie di prato, l’azzurro sporco di un cielo sempre eguale. E una stesura ad ampie chiazze che imprigiona bagliori di luce. Certo ci si avvertono echi della sua passione per Morandi, per alcuni autori della scuola romana, per Alessandra Giovannoni, unica artista in attività che più ha influenzato il suo approccio. Ma sono rimandi tenuti a bada, la costruzione del tempo e dello spazio in cui l’occhio e le emozioni si immergono è tutta sua, una percezione di sospensione, galleggiamento che non ha nulla di metafisico, se mai nasce da un’istintiva adesione ad un universo ideale alla Platone.

Giulio Catelli non ritrae, se non nell’impianto dal vero di ogni tela, ciò che vede, ma ciò che crede o vuole vedere. Per questo il piano di calpestio dei Fori gli appare come uno sterrato smaterializzato in larghe fasce rosate. Per questo nell’inquadrare la via che fiancheggia l’area archeologica davanti al teatro di Marcello le sue pennellate cancellano ogni traccia della cancellata che oggi le recinta , il verde del prato cosparso di cimeli di marmo che precipita in un dosaggio di sfumature verso il grigio asfalto della strada in salita. Per questo, l’arco di Settimio Severo o le due alte colonne del tempio di Saturno ci appaiono come specchi che dilatano a dismisura il biancore di quelle architettura di marmo. La pittura come spazio di sogno, attraversata da una sorta di ebrezza che distorce ogni asse prospettico: colonne, porticati, incavi di murature sono tutti inspiegabilmente inclinati, come se Giulio Catelli li avesse attraversati col passo e l’occhio vacillante di un pittore sbronzo e ci imponesse questo piccolo scarto, questa ipnosi etilica, come un fatto e non una conseguenza. L’apoteosi di questo sguardo sovraeccitato l’autore lo raggiunge in uno quadro, l’unico dedicato alla Roma barocca, l’unico riservato ad un interno, che in un tripudio di neri e bianchi sfarinati ritrae la navata centrale di Santa Maria della Vittoria e il coro di statue che corona il portale d’uscita come il colpo d’occhio di un visitatore- se ne intravede l’ombra- che percorre la plancia di una nave resa sbilenca da un mare in tempesta.

Seguendo strade antiche la pittura ci precipita nell’inquieto spaesamento dell’oggi. Perché chiederle di più?

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