Valentina Fortichiari
“Al giardino ancora non l'ho detto”

I fiori di Pia

La leggerezza, la grazia di chi, mentre la malattia costringe alla resistenza continua, sa correre sempre in avanti, verso l'altrove. È questa l’arte di Pia Pera espressa ancora una volta in un bellissimo libro

È molto difficile a volte toccare certi argomenti e non si vorrebbe farlo mai. La malattia di una persona che ci è cara è tra questi: le parole, se affrettate, superficiali, retoriche, possono sortire effetti inopportuni. Pia Pera invece sa maneggiare con cura ogni cosa che dice, lei che sta conducendo la sua battaglia contro il male. Viene da domandarsi se la sua scelta di anni fa – coltivare un grande giardino, e insieme coltivare la solitudine, la calma – sia adesso la sua salvezza, oppure potrebbero essere le sue piante, ogni arbusto, ogni verdura, ogni frutto, ogni fiore, a soffrire se il rischio è quello di rimanere soli, abbandonati. Ho sempre pensato a Pia come a una persona serena, equilibrata, capace di comunicare il senso dell’armonia. Mi chiedevo perché avesse deciso molto presto, in piena attività, di ritirarsi dal mondo in un’oasi sana, un avamposto verde in Toscana, vicino a Lucca, dove esercitare il suo pollice verde, la passione per la botanica. I riti di sopravvivenza per lei sono stati lo studio della letteratura, le traduzioni dal russo di grandi autori (Puskin, Lermontov), la poesia, la scrittura, la musica. La cura di un giardino: con Orti e giardini (2003) Pia ha inaugurato un filone di opere dedicate al rapporto speciale con la natura. L’orto di un perdigiorno (2010) è uno dei suoi libri di maggior successo.

cop Pia PeraLa grazia che ha sempre emanato l’ho ritrovata nel suo recente libro, bellissimo e straziante, Al giardino ancora non l’ho detto (Ponte alle Grazie, 215 pagine, 15 euro), dove ha il coraggio di dire tutto, di affrontare tutto. Di parlare con semplicità disarmante e disarmata della malattia. Sì, un libro bellissimo tanto è intenso, poetico il suo modo di toccare la grazia; straziante perché il lettore – impotente – ascolta e a ogni parola, a ogni frase, si chiede «ma come fa? ma come può? fate/facciamo qualcosa per lei contro questo soffrire». No, sbagliato: la gioia di vivere, la felicità di stare nella natura, in un giardino da Pia creato e curato, è incontenibile: sarà questo il modo? ovvero il solo contatto con fiori, alberi, odori e profumi, venti e farfalle, e le corse sfrenate di Macchia, l’amica pelosa, la deliziosa fox terrier che tutto capisce, insomma sarà questo il modo per essere felici, per continuare a essere felici pur nella consapevolezza di una fine? Come cambia l’esistenza di una persona aggredita dalla malattia? Si apprezza la meraviglia di stare a guardare, seduta senza far niente, come un ospite, in un tempo statico che favorisce la riflessione, ad ascoltare lo strano, opaco silenzio, le ondate di suoni, non più giardiniere ma pianta tra le piante, sorella di tutto quanto vive nel giardino. Non è forse degli alberi la capacità di vivere e consumarsi lentamente con la dignità di chi non si scompone? Casa e giardino diventano i “veri vestiti”.

Per Pia Pera tutto è cominciato con una lieve zoppìa, tre anni prima. La diagnosi arriva non subito ma inesorabile: sclerosi amiotrofica laterale, la malattia del motoneurone. Una malattia dalle origini ancora oscure, non esistono prove scientifiche ma si suppone che potrebbe essere la somatizzazione estrema di un conflitto, la conseguenza di emozioni violente e improvvise. Ho sempre pensato che l’editore Mario Spagnol – con il quale ho avuto la fortuna di crescere professionalmente in Longanesi per i miei primi sette anni – si fosse ammalato di sla dopo la morte di un figlio. È inevitabile che torni alla mente il lungo anno durante il quale – mentre moriva – ha continuato a lavorare, su una sedia a rotelle, attaccato a un respiratore, le mani e i piedi gonfi, deformati. Lo sguardo rimasto lo stesso di sempre – acutissimo, profondo – , la mente più che mai lucida e potente. In questi casi, i rimedi si tentano tutti, almeno all’inizio, ufficiali e non ufficiali, canonici e non, scientifici e di ciarlatani sempre pronti, dietro l’angolo, ad alimentare vane illusioni. E poi vengono i cambiamenti di status, le passeggiate col deambulatore, l’oscuro, interiore andare a tentoni, l’attrezzarsi a una esistenza che necessita di carrozzine elettriche, di una nuova definizione degli spazi, di traslochi.

Per fortuna, nella vita di Pia, a dispetto di tutto, ci sono gite, amici, pranzi o cene in compagnia, nuotate, cinema, massaggi e meditazione, naturalmente con una buona dose di adattamento. C’è un assistente che non l’abbandona mai e cucina per lei. Ci sono le letture, se si ha l’accortezza di ridurre al minimo i grandi libri consolatori, conservando in particolare i volumi che i genitori si sono scambiati con dedica (la beffa del destino è per Pia la vicenda di un padre, austero luminare di diritto del lavoro, che non ha fatto in tempo, ammalandosi, a godere dei libri della sua biblioteca). Ci sono soprattutto i lunghi momenti di pausa e di silenzio, indispensabili per riappropriarsi di un ritmo vitale che viaggia con le stagioni e le ore del giorno, il sole e l’oscurità, o l’ora più bella del tramonto che sta in mezzo tra buio e luce.

Pia PeraLa natura, ecco la medicina, il miracolo di un farmaco che sa lenire dolori e ansie. La cura di un giardino, una occupazione gentile, che permette di «tuffarsi in un fiore», la gioia di veder nascere e crescere piccoli figli che hanno bisogno di luce e di acqua. E se il giardino diventa una entità viva, un essere sensibile al quale si nasconde la verità (Al giardino ancora non l’ho detto, il titolo, magnifico, è un verso di Emily Dickinson), allora, mentre il corpo sta andando in disfacimento, esiste davvero una via per conservare lo spazio vitale della libertà, della serenità d’animo, il potere della mente, persino la capacità di volo del pensiero. Benedetta la leggerezza, la grazia di chi, mentre ossa e muscoli, cuore e movimenti conducono una battaglia di ‘manutenzione’ continua per resistere, non regredire, non fermarsi, sa con l’anima correre sempre in avanti, verso l’altrove, verso la libertà, gli spazi aperti della fantasia.

Nel suo discorso per il Nobel, lo scrittore argentino Josè Saramago, nominato da Pia, ha ricordato la semplice storia di suo «nonno Jerònimo, guardiano di porci e cantastorie», che sentendo la fine vicina, è andato a dire addio agli alberi del cortile, uno per uno, abbracciandoli e piangendo, perché sapeva che non li avrebbe più rivisti.
Adesso ho capito finalmente la scelta di Pia, e quando lei dice «Non ho mai fatto parte di nessuna generazione», posso pensare a un tempo che, nel suo caso, non ha mai corso come il tempo frenetico che contraddistingue le nostre esistenze urbane. Una durata che non si misura con le normali scansioni di ore e di giorni. Pia si salverà, e le sarà dolce ricordare ogni passo del suo cammino, il periodo più libero della sua vita.

 

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