Alberto Fraccacreta
L’elzeviro secco

Tracce d’Eco

Se la vita è fatta di segni, Umberto Eco ci ha suggerito che anche un non-segno agisce con un suo vigore semantico all’interno della comunicazione. Ecco che allora due incontri mancati con lui assumono una particolare importanza…

Umberto Eco aveva una barba ispida sotto la quale zigzagava un sorrisino beffardo. Lo incrociai una volta a Urbino, all’interstizio tra piazza della Repubblica e via Raffaello, schiena al porticato di San Francesco, giornata piovosa, animo ad asciugare, lui sceso da un gippone o qualcosa di simile, io che lo guardo, lui che non mi guarda. E via. L’agile corsa sotto la pioggia prosegue, punteggia il bagnato, come quando vedi qualcuno con cui vorresti fermarti, ma è più poetico lasciar andare. Acconsentire allo stato di dolcezza insito nell’occasione fallita.

Si dice che un incontro è pur sempre un incontro. E così, a suo modo, lo è stato: senza parole, congratulazioni, domande, srotolamento di curricula. È stato, questo basta. Il silenzio ha lasciato nel silenzio la traccia di una divaricazione, una dieresi, quasi fosse una piccola ferita. Tutto restò perfettamente uguale, ma qualcosa, seppur impercettibile, quel giorno, ha diversificato il mio giro di vita. Simile alla massa che curva inderogabilmente lo spazio o al lector in fabula che dà al racconto un senso e una struttura nuova, Eco, in quel rapido battito di ciglia, ha curvato e strutturato il mio passaggio senza saperlo.

Un’altra volta, fine estate, animo bagnato, sole tracimante, non presi il treno che dovevo prendere per tornare, e proprio quel giorno, nel cortile del collegio Raffaello, frequentato da Pascoli fanciullino (cioè quando Pascoli era un fanciullino), il professore tenne una lectio della cui esistenza seppi solo più tardi. Qui l’incontro è mancato, e tuttavia si dice che un incontro mancato è pur sempre un incontro. Anzi, forse l’incontro non è veramente tale se non è mancato. Nella perdita si costruisce la pienezza. La frase «Oggi ho visto Umberto Eco» non ha la medesima portata, il medesimo effetto, per così dire, icastico di «Oggi non ho visto Umberto Eco». Avrei potuto vederlo, ascoltarlo… e come sarebbe stato? Come avrei vissuto il momento? C’è nella negazione la luce di un’assertività più profonda, e tale assertività fa della negazione un’opera aperta, un barlume ridente di Non detto, una reticenza d’essere che nasconde l’attesa lancinante e costringe a una personale interpretazione delle cose.

Eco ci insegna che ogni opera ha una duplice caratteristica, ossia di essere un oggetto definito e al tempo stesso di mantenersi “aperta” a una serie di interpretazioni coerenti: «Un’opera d’arte, forma compiuta e chiusa nella sua perfezione di organismo perfettamente calibrato, è altresì aperta, possibilità di essere interpretata in mille modi diversi senza che la sua irriproducibile singolarità ne risulti alterata. Ogni fruizione è così una interpretazione e una esecuzione, poiché in ogni fruizione l’opera rivive in una prospettiva originale».

umberto ecoLa sua semiotica interpretativa, che scaturisce dal periodo presemiotico di Opera aperta e prosegue con l’ondata antistrutturalista de La struttura assente, ha rivoluzionato il modo di approcciarsi all’evento estetico, sciorinando quel surplus di significato (la cosiddetta “polisemia”) che è poi il costituente essenziale di ogni opera d’arte, come pure, in fin dei conti, l’elemento di benigna rottura della vita.

In questo senso il nostro non-incontro, nel suo avverarsi entro la pura possibilità, è stato polisemico (almeno per me). Il non-incontro ha avuto più forza di un incontro mediocre, se non altro nella mia memoria. Non incontrarsi resta indelebile. Non incontrarsi è per sempre.

Se la vita è fatta di segni, Eco ci ha suggerito che anche un non-segno agisce con un suo vigore semantico all’interno del commercio comunicativo. Nel Trattato di semiotica generale precisa: «È segno ogni cosa che possa essere assunto come un sostituto significante di qualcosa d’altro. Questo qualcosa d’altro non deve necessariamente esistere, né deve sussistere di fatto nel momento in cui il segno sta in luogo di esso. In tal senso la semiotica, in principio, è la disciplina che studia tutto ciò che può essere usato per mentire». La semiotica è dunque la scienza del rimando, oltre che la scienza del mistero, poiché si rimanda sempre a qualcosa di cui non si conosce bene l’origine e l’essenza. Rimandare a diviene la sua azione precipua, dire questo per dire altro la sua conseguenza più immediata. Da qui si dipana l’altra fortissima anima del grande intellettuale scomparso: l’ironia parodica, capace di mettere in piedi quella cattedrale di narrazione che è Il nome della rosa, ma anche quel preziosissimo breviario di stramberie tratte dal Diario minimo.

«L’Ordine o lo si ride dal di dentro o lo si bestemmia dal di fuori; o si finge di accettarlo per farlo esplodere, o si finge di rifiutarlo per farlo rifiorire in altre forme; o si è Rabelais o si è Cartesio».

«L’Italia è una repubblica fondata sui puntini di sospensione».

«Come va? Nietzsche: “Al di là del bene, grazie”».

Eco attraversa tutto il secondo Novecento italiano dimostrandosi uno dei pochi scrittori di riconosciuto rilievo internazionale. Tutto sommato egli è sempre rimasto fedele alla sua prima passione, la filosofia medievale. Il sapere enciclopedico diventa, nella sua particolare esperienza di uomo di cultura, anche dissacrazione di quel sapere, capacità di non prendere nulla troppo sul serio, per non finire imbrigliati nella rete dell’ottusità, nella ragnatela di vuoto nozionismo incapace alla vita.

La parodia, il gusto parodico scarseggiano oggi in Italia, e, proprio per questo motivo, rappresentano forse l’eredità più grande e gravida di conseguenze lasciata da Eco – abile parodista anche di se stesso – in dote a una intellighenzia… mancata.

Nonita. Fiore della mia adolescenza, angoscia delle mie notti. Potrò mai rivederti. Nonita. Nonita. Nonita. Tre sillabe, come una negazione fatta di dolcezza: No. Ni. Ta. Nonita che io possa ricordarti sinché la tua immagine non sarà tenebra e il tuo luogo sepolcro. Mi chiamo Umberto Umberto.

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