Angela Di Maso
Visto al Piccolo Bellini di Napoli

Ruccello da camera

«Week End» di Annibale Ruccello con Margherita Di Rauso è un piccolo capolavoro: un delirio quotidiano che si compie nel sogno/incubo finale

La visione dello spettacolo Week End di Annibale Ruccello, con Margherita Di Rauso, Giulio Forges Davanzati e Gregorio Valenti, per la regia di Luca De Bei, in scena in questi giorni al Piccolo Teatro Bellini di Napoli, ci offre la felice possibilità di ricordare il drammaturgo stabiese. Annibale Ruccello scriveva ispirato da muse. Ferdinando, il testo capolavoro col quale si presentò al mondo teatrale vincendo due premi IDI, e che lo consacrò innovativo autore, fu scritto per Isa Danieli. In Notturno di donna con ospiti, la sua adorata mamma, Giuseppina De Nonno, coi suoi continui rimproveri, fu fonte inesauribile. In Weekend invece fu l’attrice Barbara Valmorin ad ispirarlo, senza volerlo. Quando si incontravano in teatro, lei gli raccontava della sua vita e Ruccello, ingegnando l’ingegno – così amava dire – transcodificò il tutto in una pièce.

Era il 1983. Con Weekend vinse il premio IDI under 35. Solo nel 1986 però, riescì a curarne la regia per il teatro Nuovo di Napoli. Fu un enorme successo, ma Ruccello potette goderne per breve tempo. Morì di lì a poco. Weekend, insieme a Le cinque rose di Jennifer e Notturno, formano la «Trilogia da camera», come la definì lo stesso drammaturgo stabiese. «Camera» era sinonimo di interno. Interno assume il significato tutto heideggeriano di casa (il teatro era la casa ideale), intesa bivalente a sua volta come dimora, quindi abitacolo, e come corpo, forma, ospitante l’anima. La lingua (sia in italiano che in vernacolo) – di cui Ruccello era antropologico studioso –  diventa la casa dell’uomo. Ergo: quello di Ruccello è un teatro di parola. Solo attraverso la parola, monologata o dialogata, può scandagliare l’animo umano carico di irrequietezza, insoddisfazione, frustrazione. Solitudine.

La forma strutturale che adopera è quella tinta di noir e di giallo. La forma mentale che preferisce è il delirio che si compie nel sogno/incubo. Il finale d’opera è sempre aperto. In divenire. Ruccello punta alla sensibilità dello spettatore: sarà lui a decidere se quello che vede in scena è realtà o finzione; e se i suoi personaggi declamano parole che possano turbare o lasciare indifferenti. E per lui l’indifferenza equivaleva ad un mondo senza amore: amare ma non essere corrisposti.

week end ruccello2Ida, la protagonista di Weekend ne è l’esempio. Brutta e zoppa, derisa dai suoi stessi familiari che le ripetevano di continuo che mai nessun uomo l’avrebbe desiderata, compie il suo riscatto, prima lasciando il paese gretto per trasferirsi nella Capitale, ma soprattutto adescando giovani da sedurre per poi ucciderli e mangiarseli (esattamente come farà Anna Cappelli, altra eroina ruccelliana, che quando lasciata per un’altra donna da Tonino, lo ucciderà, taglierà a pezzettini e mangerà fino a decidere di non defecare mai per tenerlo sempre dentro di sé. Apoteosi e sublimazione dell’amore!).

Il noir è giocato con ironia pinteriana: battute secche, brevi, incisive. Differisce nell’uso dei silenzi e delle pause: in Pinter fermo immagini, in Ruccello azioni rallentate e silenzi colmi di musica (che lo stesso drammaturgo amava indicare in partitura. (Ne Le cinque rose, per esempio, le canzoni di Mina e Patty Pravo sono al tempo stesso colonna sonora e azione scenica).

Week End nella costruzione registica di Luca De Bei – spettacolo in giro nei migliori teatri da più di un anno e che ovunque riscuote successo e consensi – rispetta l’idea filologica dell’autore. Tutto collima perfettamente. Ci sono gli ingredienti per un piatto ricco e succulento, ma che lascia lo spettatore affamato di sapere, di comprendere. Come un lunghissimo leitmotiv wagneriano in cui, alla fine dello spettacolo, i rumori della città, le musiche francesi scelte da De Bei, le urla udite – chissà se di piacere o di dolore – restino ancora impresse nelle orecchie di chi ha visto ciò che può psicologicamente accadere a chi non è amato. Perché per quanto sentimento universalmente riconosciuto, non a tutti è dato provarne e riceverne.

Margherita Di Rauso è una Ida perfetta. Sembra quasi che Ruccello l’abbia scritto pensando a lei, così fisicamente marmorea ma esile, con quel tipo di vocalità dura, grave e profonda, capelli e occhi nerissimi e l’espressione perenne di una bambina rimproverata da tutti. Anche nelle scene sensuali, resta integra in movimenti puliti. Un’attrice di grandissimo charme ma soprattutto di rigorosa maestria e tecnica. Lo dimostra il monologo: non testo nel testo, ma consequenziale al con-testo. Non di semplicissima resa, ma che la Di Rauso ha offerto magistralmente senza cadere nella facile pretenziosità. Note di merito anche ai co-protagonisti Giulio Forges Davanzati, Narciso l’idraulico; e Gregorio Valenti, Marco lo studente dispettoso. Molto bravi entrambi ed in piena armonia scenica con i repentini cambi stilistici della Di Rauso.

Funzionali le grandi vetrate ideate dallo scenografo Francesco Grisu: ogni apertura e chiusura delle stesse non era che un’affacciata sul mondo perché quello che accade in casa di Ida, è in realtà lo specchio di una società intera immersa nella solitudine più totale e che a suo modo c’è chi cerca di uscirne e chi decide di affondarci dentro. E lo specchio nel quale Ida si guarda altro non è che l’incontro contemporaneo con se stessa e gli altri, quelli di fuori. Quelli incancreniti nella sua carne.

Annibale Ruccello ha fatto suo l’insegnamento di Eduardo: bisogna vivere la tristezza fino in fondo, solo così si torna a galla. Ruccello era un assetato di vita, ma anche un malinconico. Peccato che lui a galla non ci sia mai più tornato, se non attraverso le continue rappresentazioni delle sue opere e manifestazioni di stima che ancora tutt’oggi la sua drammaturgia accoglie.

Weekend si replica al Teatro Bellini di Napoli fino a domenica 7 febbraio. Uno spettacolo da vedere ovunque venga rappresentato. Un Ruccello da non dimenticare mai.

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