Alberto Fraccacreta
La maschera e il teatro

Parola di Arlecchino

Incontro con David Anzalone che si appresta a interpretare un Arlecchino politico nel "Servitore dei due padroni" messo in scena da Carlo Boso

Il 10 e l’11 febbraio il teatro La Fenice di Senigallia punta i riflettori su un evento d’indiscussa importanza: la prima dell’Arlecchino servitore di due padroni, scritto e diretto da Carlo Boso, tra i più apprezzati registi teatrali europei e fondatore dell’Académie Internationale Des Arts du Spectacle di Versailles. La commedia è interpretata da Cantina Rablé, compagnia di teatro popolare nata in seno al Centro Teatrale Senigalliese. L’opera goldoniana, che vide la sua prima assoluta nel 1746 al teatro San Samuele di Venezia, conta – in una lunga e controversa storia – importanti rifacimenti, tra cui quello indimenticabile di Giorgio Strehler per il “Piccolo” di Milano. Ma Cantina Rablé, come si dice in gergo, strizza l’occhio agli spettri e ai giganti, e non ha paura di innovare: l’ambientazione sarà l’Italia della fine anni Quaranta, Italia macerata e da ricostruire, Italia verso il boom che sarà presto crisi, Italia stupida amica. Un po’ come voleva Tucidide, bisogna capire le cause che hanno portato allo status quo per saper leggere il presente: in questo senso, il teatro è la cartina al tornasole per smascherare depravazioni e rovine della società odierna. Il teatro, nella sua stessa macchina impersonativa, diventa il fustigatore del vizio che, forte di una duplice connotazione etica ed estetica, non teme il peso schiacciante della politica di sabotaggio. Tornando all’origine si può rileggere attentamente il meccanismo della sciagura e correggerlo. Basta un po’ di buona volontà, sana resistenza e ampio senso dell’umorismo, che è poi la finalità peculiare di questo spettacolo. Lo rivela, sudato e trasognato dopo una terribile seduta di prove, l’Arlecchino di Cantina Rablé, David Anzalone, attore di rilievo nazionale, celebre per il monologo Handicappato e carogna, scritto con Alessandro Castriota e pubblicato da Mondadori.

Come ci si sente nei panni della maschera più famosa al mondo?

«Ci si sente molto responsabilizzati, perché, sì, Arlecchino è la maschera simbolo del teatro mondiale. Ma, essendo diventato un simbolo oggi abbastanza sterile, ho l’esigenza di prendermi tale responsabilità e di portare un contenuto a quella maschera. Deve tornare ad essere il motivo per cui è diventata simbolo del teatro mondiale: la sua irrinunciabile diversità, la presa di coscienza cioè che nel quadro culturale contemporaneo è fondamentale la diversità proprio per rivitalizzare le maglie del tessuto sociale. Però (sorride) diciamo la verità: è anche un gioco. Vorrei giocare, divertirmi, entusiasmarmi. Tutto sommato, è da vent’anni che faccio l’Arlecchino!».

Ferruccio Soleri ha riportato Arlecchino alle luci della ribalta. Nello studio del personaggio, hai preso spunto da qualche attore in particolare?

«No, perché l’errore più grande sarebbe quello di ripercorrere strade già solcate. La mia ricerca del personaggio si è basata molto sugli scritti dei reduci della campagna di Russia, durante la seconda guerra mondiale, che scrivevano in maniera commovente addirittura le attitudini fisiche che vedevano in loro stessi e nei loro compagni. E questa ricerca tenta, dunque, di unire inscindibilmente due tipi di handicap: il mio personale e quello dei reduci, i quali, per le condizioni disperate in cui versavano, erano pesantemente invalidati».

Perché avete deciso di ambientare l’opera goldoniana nell’Italia della fine degli anni Quaranta?

«Perché riguarda un tema d’interesse che ha unito sia me che Michele Pagliaroni (NdR membro del CTS e interprete di Florindo nello spettacolo): risalire all’origine della Repubblica e comprendere l’essenza dei mali che tuttora affliggono il nostro Paese, a partire dal 1948, anno della prima elezione democratica. Ci siamo accorti studiando quel periodo che l’Italia si è liberata dei vecchi padroni, ma ne ha subito ritrovati degli altri, che sono i padroni che tutt’oggi strangolano la Nazione, cioè un misto di mafia, imprenditoria malata, negativa e collusa che è il principio della nostra Repubblica cosiddetta “liberata”».

Qual è il progetto culturale del Centro Teatrale Senigalliese e della Cantina Rablè?

«Il progetto culturale è molto chiaro: riportare in vita il teatro italiano partendo dal teatro popolare che è, per così dire, la sorgente del teatro italiano e l’estuario di quel teatro che ha contaminato tutto il mondo e tutte le forme di spettacolo che conosciamo oggi, in un termine molto stereotipato ma anche molto comunicativo, cioè la Commedia dell’Arte. Il Centro Teatrale Senigalliese è una struttura di formazione, ricerca, diffusione e produzione di teatro popolare. Abbiamo creato una scuola composita, un festival internazionale e adesso con questo spettacolo, per la prestigiosa regia di Carlo Boso, tentiamo di esibire il volto della produzione, in modo che si dimostri anche fisicamente come il teatro popolare è vivo e sempre più necessario. La compagnia è composta interamente da giovani attori  provenienti da tutte le regioni d’Italia».

Che tipo di risorsa può essere il teatro per la società attuale?

«Io credo che il teatro, con tutti i suoi limiti, così come la cultura con tutti i suoi limiti, può sensibilizzare e modellare una sostanza umana, un magma umano che riesca a riportare in circolo alcuni valori universali come la giustizia sociale, la diversità, la buona politica e, in ultima analisi, come vuole ogni buon testo di commedia, anche far trionfare l’amore. I grandi mutamenti della storia avvengono se si sviluppa una sinergia tra le varie entità culturali, politiche e sociali. Noi ci occupiamo di una di queste: il teatro, che in fondo è una piccola cosa, capace però di saper suscitare l’amore. E non è banale dirlo: oggi l’amore è sempre più il motore che deve contaminare tutto».

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