Alberto Fraccacreta
L'elzeviro secco

I film rincretiniscono?

Breve analisi del cinema di consumo (quello che fa incassi record), prendendo in prestito da Andrea Pazienza il suo grande, terribile interrogativo: perché Pippo sembra uno sballato?

Un solo fenomeno è più inquietante dei centri commerciali: il cinema di massa. Quelle multisale, rigorosamente di nero vestite, spesso contenute nei grandi plessi della moderna religione, recano in sé una sofferenza per nulla gergale, traducibile in un senso di vuoto dai risvolti atroci. Sono le pause dal quotidiano Giudizio universale, suggerite da Hebbel, che condannano ad un rimbambimento colpevole e connivente. Non si fa altro che parlare di film e incassi di film. A me annoiano mortalmente. Se devo assistere ad una galleria di immagini, preferisco di gran lunga un assolato pomeriggio di ricerca della bellezza in una mostra di pittori retrò che, alla fine del giro, come un colpo a tradimento, squaderni la luce inconcepibile di Millet.

Guardare i quadri, vedere una sola immagine per un certo numero di minuti, è salvifico. Concentrarsi sull’immagine è il senso di ciò che non vincola. È lì, si mostra, si offre alla vista che però non la esaurisce, ma la spoglia di tutte le supposizioni e di tutti gli schemi preconcettuali. Contemplare un quadro è un viaggio verso la nudità del quadro stesso, in modo da pervenire alla sua reale presenza: è dunque un atto d’amore, se amore è l’incontro disarmato di due. La sensazione è di essere guardato dal quadro, persona presente al quadro. Quest’ultimo la osserva dentro e ne depreda l’anima. Le opere di Bosch sono dei veri e propri film, in cui l’attenzione dell’immagine è alla sua massima facoltà: una sola scena, migliaia di particolari osservabili (rovescio dei film, che presentano migliaia di scene e nessun particolare osservabile).

In cinema così concepiti, invece, l’oblio la fa da padrone e ingiunge l’ordine tassativo di «passare il tempo». Quale frase è più raccapricciante, e forse più crudele, di «passare il tempo»? Credo che, se esiste un inferno, esso è anche la consapevolezza di aver gettato via tutto il proprio tempo nel fare cose sbagliate. E oggi il progetto di Pëtr Verchovenskij sembra attuarsi: la maggior parte degli uomini avanza verso l’incoscienza, tanto più terribile perché comporta insensibilità alla dilapidazione del tempo.

Non a caso i film di oggi si basano sul ritmo frenetico dell’immagine, sulla non presenza della persona dinanzi allo svolgersi della vicenda, tanto da diventare un paradigma sociale, tra i più influenti, che ricrea il tutto vissuto: la corsa, la velocità, l’arrembaggio in direzione del niente. Ogni cosa è rapida, nulla necessita di attenzione, di raccoglimento. Un quadro propone un’immagine concentrata; un film è l’opposto: migliaia di fotogrammi dei quali non possiamo osservare che un’infinitesima parte. Non poter posare la vista su qualcosa in maniera consenziente e ragionata è una forma della violenza, poiché toglie la libertà di rendersi davvero conto di ciò che si ha di fronte. È un tentativo di raggiro.

I quadri fanno riflettere, i film di massa fanno scialare i secondi a disposizione. «Che programmi abbiamo per stasera?». «Mah, vediamo qualcosa di leggero, per distenderci…». Spegniamo il cervello. Ma lasciar passare il tempo è la fine di ogni possibile coscienza del mondo e di ogni eventuale mondo della coscienza. Per dirla con Husserl, l’intenzionalità perde la coscienza dell’oggetto e non si rivolge più ad un contenuto concreto. Il pensiero vagola errabondo, senza riuscire a cogliere altro da sé ed entrare così in un genuino campo di esperienza. La realtà si distorce, il soggetto si aliena.

Tali film, com’è semplice notare, sono generalmente sprovvisti di qualsivoglia dialettica nei dialoghi, che si rivelano per lo più scontati (basta provare a chiudere gli occhi, quando i personaggi parlano), e soprattutto giocano quasi solo sull’emotività, direi sulla ferinità, sulla “pancia” dello spettatore: caro Bergman, è finito il tempo in cui il cavaliere crociato Antonius Block poteva interrogare la Morte sul significato dell’esistenza e del dolore. Nulla di tutto questo: la continua ricerca di leggerezza della contemporaneità è la spia di un diversivo per non esternare troppo la sofferenza quotidiana, che deve essere rinchiusa, bandita, passata sotto silenzio, al limite coperta da agenti esterni. Ma bisogna riformulare i termini in questione: non è il dolore ad impedire la felicità, perché non sono contrari l’uno dell’altro. È l’ego a rendere tutto impossibile, la mancanza di apertura – foss’anche uno spiraglio, una fessura dell’anima – in direzione dell’alterità. Ma è proprio questo moto che il cinema di massa impedisce.

L’arte del cinema, pur meritoria e gravida di riflessioni, come insegna la storia del muto, il neorealismo, la nouvelle vague e qualche grandissimo regista, perde così la sua dignità, assecondando la distruzione dell’immagine come imago, cioè come il riflesso di una rivelazione.

andrea pazienzaPer fortuna ci soccorre una splendida intuizione del grande disegnatore Andrea Pazienza. Fa parte della storia Perché Pippo sembra uno sballato?, tratta dall’omonimo volume. Dietro alla semplice ironia sul personaggio Disney si cela una critica per nulla leggera: Pippo è lo sballato di turno, l’alienato par exellence perché non regge la pressione della cinepresa, della vita sotto i riflettori, di questa grande macchina psicosociale priva di spiritualità.

La vignetta di Pazienza si riferisce ai bimbi e a ragione: grandi-bimbi, adulti-bimbi, vecchi-bimbi. Una coscienza che non sia etica, rivolta verso il bene della società, è una coscienza neonata, così come chi prova amore solo verso se stesso, eternamente nella veste dell’amato e mai in quella dell’amante, è un infante dei sentimenti.

Il cinema di massa sta alla pittura nel modo in cui l’amore infantile sta all’amore adulto. Il film è oblio non capace di fusione, ma ben indirizzato all’annientamento, alla droga come deroga della coscienza: «fate voi per me, io non ho voglia». La pittura è altresì fusione nella piena identità. In questo senso la vignetta di Pazienza è perfetta: «Quei films rincritineno i bimbi!».

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