Alberto Fraccacreta
L’elzeviro secco

Anime disconnesse

Bellezza senza sforzo, si inghiotte senza assaporarla, l’attenzione è minima, emozioni a buon mercato affollano i social-network. Non si è più disposti a guardare, mentre si moltiplicano i selfie e noi siamo unici protagonisti del nostro palcoscenico…

Passeggiavo l’altra sera, all’ora del tramonto, per le mura bagnate di Urbino. Le vie erano perle di umidità. Notavo che tutte le donne che mi fendevano la strada, avevano il viso incollato al cellulare. Certo, non sono un Clark Gable: nemmeno così grifagno però da non rivolgermi uno sguardo. Ho incominciato a sbracciarmi, fare capriole per attirare l’attenzione, dirigere il traffico: nulla. Se, in un impeto di narcisismo dionisiaco, mi fossi gettato dalle mura, non se ne sarebbe accorto nessuno.

Mortificato dalla mia non esistenza, mi sono allora diretto verso un punto, un occhiello del belvedere da cui ancora si coglievano gli ultimi, deboli raggi del sole. E in effetti la luce filtrava da quell’asola con gentile economia. Desideravo gemere, poiché anch’io, non lo nego, faccio parte di questa “legione del consenso”. Alcuni ragazzi scattavano le foto di rito per catturare gli avanzi del tramonto e condividerli su Facebook; ma il problema è che, essendo tutti amici fra loro e avendo tutti nello stesso istante scattato e condiviso l’istantanea, ognuno di essi era idealmente connesso, ma nessuno poteva osservare ciò che gli altri condividevano. Per cui nessuno ha potuto far da pubblico: le varie fotografie, belle per carità, tuttavia prive di spettatori plaudenti, sono sfumate nel dimenticatoio.

Tale paradosso del social-network, se così si può chiamare, rientra nell’orizzonte di due ordini di ragioni: 1) non si è più disposti ad assistere; 2) la bellezza è a buon mercato.

Partiamo dalla seconda ragione (paradossale). La bellezza non è vissuta come una ricerca, talora ardua, come un posto da conquistare. È altresì una continua fagocitazione degli oggetti, uno scartare incessantemente i cioccolatini del piacere non per sentirne il sapore, ma per una strana forma di bulimia spirituale. La bellezza oggi si mangia, la si inghiotte senza masticare. «Andiamo a fare viaggi, vedere mostre, luoghi, cose, mostre, mostri, cose, cose… facciamo!». Facciamo il fare, fagocitiamo il bello. Già la descrizione non invita alla gaiezza.

A scuola dovrebbero imporre una cattedra di Senso estetico; non sto dicendo storia dell’arte: Senso estetico. Siamo in Italia, diamine, non alle Galápagos dove ci sono più cormorani che uomini. E qui – sui cormorani – si aggancia la prima ragione. Nessuno assiste. Non si guarda. Ci si riflette soltanto. La bellezza è ovunque senza sforzo, l’attenzione è minima. L’altro diventa uno schermo, un rimando, un tropo entro cui poter scorgere lo specchio della propria sopraffazione. La nostra cultura si dimostra incentrata sull’autoriflesso, sull’individualità egotica, tanto più dolorosa quanto più incapace della minima apertura. C’è gente che muore facendosi un selfie. «Io al lavoro…»: sta aprendo il cervello di una paziente in sala operatoria. «Io e il mio unico amore…»: coccola il cane, abbozzando sulle labbra luccicanti di solitudine qualcosa che si avvicina a un ghigno. «Buonanotte sognatori»: è a testa in giù sulla Tour Eiffel con un sorriso schizoide da settanta denti, mentre gli inservienti del manicomio Les Possédés la portano via. Ognuno di noi crede di avere un pubblico che segua con approvazione costante e senza il minimo cedimento, e addirittura esalti con ardore la nostra vita catodica. La nostra finzione di essere su di un palcoscenico, ritenendo stupidamente che ci siano degli stupidi ad assistere alle nostre stupidità. Ma il pubblico finge di esserlo e noi fingiamo di non vedere la loro finzione.

Cos’è dunque lo smartphone se non un “se stesso” che vede se stesso, il trionfo dell’autovisione e dell’autoviralità, un’escrescenza, un’estensione fisica della condizione di dominio del soggetto? Il virus dell’Io è medicato dall’Io. Dentro i social-network si ha la celebrazione completa e compulsiva di sé davanti a una platea fittizia che ha come principale spettatore se medesima. Su Facebook io mi vedo, su Twitter io mi cinguetto. Mi vedo dagli altri non visto se non da me. Quindi ognuno si scorge dal di fuori, osserva le proprie sfumature e buonanotte al secchio! La connessione è, per questo motivo, ideale o meglio: dissolventesi. La connessione è un rimosso (oltre che un rimorchio).

Infatti su Facebook ciò che ha maggior “tiratura” sono gli autoscatti, le immagini, gli idoli. Nei social-network il potere d’acquisto è nelle mani di chi, di bell’aspetto, si fotografa sotto una particolare inclinazione di luce, con una frase particolare, tratta possibilmente dall’abbecedario di Jack Scolapasta. I post degli intellettuali hanno scarso successo, persino quelli dei politici. Non è poi necessario essere famosi. Vince la mediocrità, la ripetizione dell’identico, la serialità dell’aspetto privo di sorprese.

Personalmente non mi autofotografo, soltanto perché esco sempre come un Beota dagli occhi chiusi. Vorrei fotografarmi: nulla da fare, ho provato anche a mettermi delle mollette da panni sugli occhi. Niente, palpebre serrate automaticamente, ermeticamente. È forse un paleozoico istinto di autoconservazione a salvarmi, non la mia coscienza, perduta nel rigagnolo dell’allinearsi agli altri, tenuta in riga dalla morsa spietata del divertimento. Nessuno, oggi, sembra connesso… col proprio spirito.

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