Pasquale Di Palmo
“Autoritratto” di Giancarlo Sissa

Vita senza pane

Una poesia aderente alla dimensione autentica del nostro vivere, sussurrata e talvolta gridata. Una poesia davanti alla quale non ci si possono consentire definizioni evasive o etichette…

«Posso giocare a calcio/ per ore con i bambini/ e sentire quasi amore/ per lo sgambetto per la finta/ o il tiro a rete persino/ per il loro afrore/ e resistere alla sete/ urlare torna, fallo, marca». Questi versi sono tratti dall’antologia intitolata Autoritratto (Poesie 1990-2012) (Italic Pequod, 164 pagine, 15 euro) che raccoglie un florilegio di testi di Giancarlo Sissa, una delle voci più rappresentative di quella generazione di autori nati all’inizio degli anni Sessanta che hanno avuto la sfortuna di venire schiacciati dall’autorità dei poeti delle generazioni precedenti (De Angelis, Cucchi, Conte, Mussapi, Buffoni, De Signoribus, Pusterla, Fiori, solo per fare qualche nome) e l’invadenza dei poeti delle generazioni successive.

I testi presentati in questa antologia sono tratti da Laureola (Book Editore, 1997), Il mestiere dell’educatore (Book Editore, 2002), Manuale d’insonnia (Nino Aragno Editore, 2004) e dalle prose di Il bambino perfetto (Manni, 2008). Il canzoniere di Sissa tocca alcune tematiche universali (l’amore, il male di vivere, la rabbia, il desiderio di fuga, il ricorso all’alcol), sviluppandole in maniera quanto mai originale e convincente. Non è un caso che uno dei suoi punti di riferimento si possa considerare Giovanni Giudici che cercò di coniugare, con la sua opera, registro alto e basso in un contesto che tentava di rappresentare La vita in versi, come si intitola una delle sue raccolte più conosciute, con il suo retaggio di eventi dimessi e quotidiani.

A Giudici sono dedicati i versi di Maestro, sorta di elegiaca rievocazione dell’autore di Salutz che presentò la silloge Prima della TAC nel Sesto quaderno italiano di Poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 1998) con questo incipit: «Tenero poeta d’amore al momento della sua prima identificabilità, Giancarlo Sissa non è più oggi autore davanti al quale ci si possano consentire definizioni evasive, etichette. Che la corda dell’eros fosse in lui, se non prevalente, molto importante lo si potrà comunque verificare su Laureola sua prima raccolta, comunque rilevandovi, dal punto di vista del trattamento linguistico, l’originalità di una sobria grazia che già in partenza dissipava fumosità e scorie e, insomma, ogni pur lontano sospetto di facile sentimentalismo».

Giancarlo SissaE, in effetti, la poesia di Sissa si configura come una sorta di spartiacque tra l’immediatezza e la levità di certi autori novecenteschi (Penna, Caproni) e, per usare le parole di Alberto Bertoni nell’accurata postfazione, «una dizione poetica tutta esistenzialmente viva e incarnata». In tale contesto la rima – una rima volutamente facile, immediata – e le frequenti assonanze assolvono il compito di accompagnare una musicalità franta e sincopata, quanto mai presente. Si tratta dunque di una lirica che cambia a più riprese modo di porsi, alternando il grido al sussurro, appoggiandosi a «un dire appena appena screziato d’ansia e in fondo ilare e parodico», come suggerisce ancora Bertoni. Spesso, come nel poemetto intitolato Noi, la voce poetante diviene la voce stessa di una generazione che non ha saputo e voluto adattarsi alla logica del profitto e della globalizzazione, rimanendo irrimediabilmente tagliata fuori dagli schemi delle decisioni che contano: «la generazione tua e mia, che sfila aghi/ dalle vene, quella no, quella non conviene/ ridarle posto voce fiato, nemmeno il replay/ d’un sogno mutilato».

D’altronde non è un caso che, nel Manuale d’insonnia, uno dei componimenti più riusciti sia dedicato a quella sorta di irregolare delle nostre lettere che fu Ferruccio Benzoni, autore autoconfinatosi (e quasi annullatosi) in una sua stravolta Cesenatico che scrisse alcune tra le sillogi più potenti della sua generazione, tra cui la splendida Numi di un lessico figliale (Marsilio, 1995). E a Benzoni mi è capitato di pensare leggendo Pont Neuf che riporto integralmente:

E cosa importa si porti vino

a un tavolo dove non se ne beve

solo lettere scriviamo e malaccorte

ma vere come il bere del mattino

o nebbia la nebbia che si porta

altrove le parole – ma lo fa piano –

come a notte la tua mano cioè

quel posto dove riposo e amo

 

e solo lettere scriviamo e malaccorte

– o notte – ma le scriviamo forte

 

così a lungo io t’ho aspettata

fino al che saremo un’altra cosa

o quella semplice che non sappiamo

– carezza senza morte – sul Pont Neuf

la luce nella neve era rosa

Come si evince da questi versi, il dettato di Sissa procede a strappi, per anacoluti, affidandosi a temi semplici, quasi trobadorici (l’umana condivisione, il vino, la volatilità della stessa parola scritta) con una sorta di candore che non disdegna di immergersi in quelle che Roberto Galaverni ha definito «le zone cosiddette “basse” dell’esistenza, le contrade della sconfitta, dell’ingiustizia e del dolore». Sissa descrive infatti un’umanità stanca, lacerata, ripiegata sulle proprie angosce e ossessioni, che trova pace «nell’elemosina del tempo», accostandosi al bicchiere o ricordando un’infanzia irrimediabilmente perduta.

Il tema dell’infanzia ricorre costantemente nell’opera di Sissa, soprattutto nell’economia della raccolta Il mestiere dell’educatore, in cui le partite improvvisate di calcio tra insegnante e piccoli alunni sul cortile della scuola acquistano un valore pressoché provocatorio nei confronti di schemi didattici e programmi scolastici spesso disattesi o applicati senza alcun trasporto emotivo. Il rapporto con i vinti, con gli ultimi non tocca mai le corde guaste della retorica che ammorba tanta poesia cosiddetta civile, ma si delinea, in maniera lieve, quasi svagata, come un inno alla dimensione autentica e rigorosa del nostro vivere: «e quante parole quante/ d’amore di circostanza/ e vere o vuote o vane/ non ha importanza/ – o vita senza pane».

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