Alberto Fraccacreta
L'elzeviro secco

Platone e l’attesa

Quando il male ci soverchia, non vediamo che la tela del ricamo rovesciata. Non possiamo comprendere tutto, ma ci sono alcune decisive evidenze che ci salvano, dovrebbero salvarci: basta chiedere aiuto ai classici

Soltanto nelle idee dimora l’Essere. È una dimensione trascendente rispetto a quella del semplice vivere. L’ontologia platonica si presenta dualistica nelle cervella, comprensiva di due piani concettuali, quello delle realtà sensibili e quello delle idee, tra i quali sussiste una differenza cosiddetta “ontologica”, incolmabile e costitutiva della loro stessa natura. Il buon realista Aristotele, suo alunno all’Accademia, con il ditino sempre alzato a lezione, sembra abbia convinto il maestro ad attenuare l’ipotesi. Bei tempi quando si poteva chiacchierare di strutture dell’essere, senza la fregola di guadagnarsi la pagnotta, senza essere inghiotti dal consumismo e dal suo tragico traffico. Si andava, giocondi, all’agorà a farsi un aperitivo con Socrate: gran consumatore di aperitivi, per altro.

Si camminava per strada e si incontrava un sofista o un attore o un tragediografo; si respirava la bolla espressiva del greco antico con la sua austerità e quella prosa sintatticamente mistica, priva di qualsivoglia ordine nella frase. Si aspettava il piede conquistatore del nemico (macedone e poi romano) sull’uscio di casa.

Tornando a Platone, l’unico rapporto possibile tra il piano dei fenomeni e quello delle idee è “mimetico”, da mimesis: ogni realtà sensibile ha il suo modello, l’eidos, nel mondo intelligibile. Frasi compresse, in verità. Magari fosse così semplice. Quindi la realtà si permea seguendo ad occhio il suo ideale. C’è un biforcamento. L’unico “salto” possibile tra i due livelli resta quello che può compiere l’anima umana, elevandosi attraverso la conoscenza dall’esistenza materiale a quella intellettuale. Platone, con le sue robuste spalle da cabotiere, si rifà alla concezione orfica pitagorica dell’anima, ove questa infatti è scissa in due parti: la prima, mortale, che muore insieme al corpo, e la seconda, immortale, che, a detta di Pitagora, si reincarna in altri corpi. Cominciamo col dire che, di questi tempi, l’anima è degradata al rango della pulsione papillifera. Inoltre: «l’anima si reincarna» è una contraddizione bella e buona. E la carne cosa fa? Si «rianima»? Pitagora era certamente un uomo intelligente, ma a cui piacevano i giochini di parole.

Quando vedo un quadro di Morandi, colgo il suo essere assorto. Sostanzialmente Morandi ha un solo tema: l’attesa. Questo tema tanto più ci colpisce, quanto più si rivela universale, capace di investire l’interiorità umana e addirittura l’esteriorità degli oggetti, il vetro frangibile della realtà, esercitando su di esso una pressione d’aria che si percepisce senza poterla spiegare. È impossibile guardare un paesaggio e credere che quel paesaggio rimarrà fermo e incantevole per sempre. Anche la cosa più fissa e statuaria possiede in sé un’idea di dinamicità: non che sia dinamica per davvero, eppure gli attribuiamo un cambiamento, un modo d’essere o una psicologia. Non solo l’uomo, ma anche la realtà, gli oggetti, l’ousia attendono qualcosa. Hanno in sé, come un marchio, la parusia. Le cose sono già attesa. Morandi presenta l’oggetto slegato dalla sua funzionalità, un po’ come voleva fare Daniil Charms nella sua Logica cisfinita. Eludere dunque il legame di potere per cogliere una realtà scevra dell’occhio funzionale. In questa realtà si afferma con grande perfezione l’aspetto trascendente. Si innesta, almeno da un punto di vista concettuale, perché è già attivo, da sempre. Noi lo chiamiamo “trascendente” per capirci, ma esso non trascende niente: ci precede, precede le nostre costruzioni di realtà ed irrealtà, lo squadrarsi delle nostre supposizioni. In realtà siamo noi a trascenderci nel pregresso.

Anche questa piccola prosa ha in sé un’attesa: per eluderla o, chi lo sa, per promuoverla, divaga con leggerezza. Sa di essere un’eterna divagazione, un’associazione strana di parole e poi frasi e poi periodi: tutto questo per eludere, promuovere l’attesa. Cammino dentro la mia prosa.

Vorrei ora riprodurre sulla pagina la mia vecchia, lisa, sdrucita teoria della trascendenza nel reale: Morandi è il pittore che meglio la rappresenta, Maria è l’essere che meglio la incarna. E c’è un legame tra i due termini in questione. Il soggetto pittorico di Morandi, essendo la parusia delle cose slegate dalla funzionalità, vuole riprodurre uno stato d’essere che Maria ha incarnato nella sua vita. I colori di Morandi ci accolgono. Ci invitano sulla soglia. Dicono «prego, entrate nel quadro: è un luogo sicuro». Noi entriamo nelle pareti di una casa silente per assaporare l’umiltà delle cose poste, riposte. Attesa e invito. Silenzio, soprattutto.

Maria, avendo accolto in sé la volontà trascendente, è stata realtà della trascendenza, trascendenza nel reale. Era bello vivere con lei, chiedetelo al savio Giuseppe. Era calmo. Immagino la quiete che doveva regnare in quella casa. Non certo una quiete statica, monotona: una quiete da bufera del deserto, da gote arricciate, occhi arrossati nella sabbia. Non era più un’idea platonica la dimora dell’essere, ma un essere in carne ed ossa, che parlava, respirava, aveva i suoi turbamenti. Gesù crebbe – come dice Dante «’l suo Fattore non disdegnò di farsi suo fattura» – in quella dimora. Quella dimora era disposta come gli oggetti di Morandi sono disposti alla venuta. Penso che questo possa essere un indizio di struttura fisica dell’universo.

Maria accoglieva in sé l’Avvento con fiducia e speranza. Una notte ho sognato di camminare per un lungo sentiero con la Theotókos.

E poi dicono «ah be’, Einstein di sicuro…». D’accordo, Einstein, pur essendo il più grande fisico della storia, non ha colto la fisica di Maria. Strano, eppure è così. D’altra parte sono discorsi: lui, per discolparsi, può dir la sua, noi diremo la nostra. Chi vince? Nessuno. La vita continua ignara nel suo dolore.

Volevo solo precisare, invece, che Kierkegaard, quando espone la sua nota teoria sulla ripresa, si riferisce, secondo me, al tipo di trascendenza che ho ivi esposto. La ripresa non ha nulla a che vedere con l’eterno ritorno di quel baffone di Nietzsche. So che non bisognerebbe parlar male di nessuno, quando si scrive, però Nietzsche mi fa, letteralmente, uscire fuori da gangheri. La dimora di Maria è la ripresa ad ogni male. Nietzsche a questa frase sghignazzerebbe. Noi gli rispondiamo: «Ridi che mamma ha fatto gli gnocchi».

Per tale ragione nel Purgatorio ella visita le anime e le reca refrigerio (è l’unica che può farlo secondo il decreto divino): e le anime rispondono cantando l’Ave maris stella. Dunque, vorrei precisare che questo è un articolo scientifico, di fisica per la precisione, ed io sono un fisico mariano. Mi sono attribuito tale titolo senza il beneplacito superno. Pagherò per questa impudenza. (Della comunità scientifica, invece, non mi importa un’acca.)

Ma pago ben volentieri: in questo frangente il nostro caro, largo di spalle, Platone ha fallito. Non ha creduto possibile che l’essere umano potesse incarnare la trascendenza, che la trascendenza precedesse la realtà, e dunque potesse far tutto: entrarvi, uscire, rimanere dentro e fuori contemporaneamente. Il reale e la trascendenza non sono compartimenti stagni. D’altra parte le descrizioni della struttura dell’universo che oggi la fisica ci presenta, tendono a “derigidizzare” (mi si passi il termine) la realtà medesima. L’universo è un panno bagnato, la cassa intirizzita di una fisarmonica, un maroso che si ripiega sull’arena di sé. L’universo è il lenzuolo lindo che la donna delle pulizie di casa stende e distende fuori dal terrazzo. La vedevo, quand’ero bambino, nei primi giorni di giugno, giorni in cui la scuola era appena finita. E con i pennarelli provavo a disegnare quel moto arcuato e a riprodurre sulla carta del quaderno quel rumore così nitido, stentoreo, secco. È il rumore della fine della storia, penso ora riascoltandolo con l’orecchio della memoria. Il rumore del tutto che si dispiega e torna a sé.

Platone ha un difetto, che sarà ripetuto da molti i pensatori, anzi sarà il difetto di forma più grave di tutta la filosofia occidentale: è ideologico. Parte dall’idea e va verso l’uomo. Ma il volto – un volto qualsiasi – non può mai essere ridotto ad alcunché. Anche il volto di un omicida: non assassinate Caino. C’è nella presenza umana un divieto che non può essere scalfito ed è il perno della sua esistenza. Ora del cristianesimo tutto si può dire, meno che sia ideologico. Se talvolta, nella storia, ci sono state cenni di ideologia, essi sono dipesi dal comportamento politico dei suoi promulgatori, non certo dalla sua natura intrinseca. Il cristianesimo è intimamente a-ideologico: parte da un volto, Cristo, una persona che associa alla sostanza divina la sostanza umana. Il cristianesimo parte dall’uomo, promuove l’uomo, il suo volto, persino la sua carne. Non riduce. Che il cristianesimo sia stato ideologico è un grosso equivoco. Al massimo è stato ideologizzato.

Con Maria l’attesa si compie, l’eidos è ousia. Attraverso Maria, dunque, come vuole Luigi Grignion de Montfort, passerà la Parusia. Nietzsche continua a sghignazzare, ma per ripicca gli taglieremo i baffoni nel sonno. Così impara.

Ciò detto non voglio appesantire la mia prosa per due ordini di ragioni: primo perché è umile, deve rimanere umile, benché talvolta si vesta di aggettivi sgargianti e dichiarazioni fastidiose; secondo perché Maria non è certo un argomento di pesantezza. Al massimo lo sono i filosofi e le loro orride acconciature. Ritorniamo all’attesa.

Stasera camminerò verso casa, dopo queste sparute ore di studio pigro. È un sabato alle porte dell’inverno. Gli occhi mi si arrossano che è una bellezza. Penso all’elleboro senza motivo. Forse un motivo c’è: la rosa di Natale, e siamo sulla via morente di un nuovo dicembre, ricco di speranze di regali o di regali di speranza. Torno a casa e penso ai guai del mondo, alla prostrazione, agli errori che io stesso commetto con estrema facilità e puntualità. Ma questo non può, non deve scalfire la mia giocondità di esistere che vorrei trasmettere in grazia di una maggiore certezza, maggiore evidenza nelle mie azioni. Sapere che, qualsiasi situazione si viva, qualcuno ha innestato la nostra radice a esistere e, per buone ragioni logiche, se l’ha innestata, non vuole certo che sia recisa. Né qualcun altro potrà mai farlo. La radice dell’esistenza è viva in eterno. Soltanto noi stessi possiamo decidere di autocancellarla.

Quando il male ci soverchia, non vediamo che la tela del ricamo rovesciata. Non possiamo comprendere tutto, ma ci sono alcune decisive evidenze che ci salvano, dovrebbero salvarci.

Ora vado. La mia piccola prosa non si è esaurita, per sfortuna vostra, ma devo pure smettere di scrivere. Sto andando a casa. Cammino scrivendo e lascio tutto, mentre avrei volentieri indugiato a scrivere ancora. Però il tempo ha i suoi tempi. Per fortuna vostra.

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