Laura Novelli
Visto al Teatro Vascello

L’attrice in gabbia

Daniela Marazita racconta la sua esperienza di animatrice teatrale a Rebibbia in un monologo bello e intenso. L'incontro tra attrice e reclusi avviene in quella specie di vita di scorta che è il teatro

Una sedia bianca di legno. Una scatola, anch’essa bianca, sul lato sinistro del piccolo palcoscenico (siamo nella Sala Studio del Vascello). Un gioco di luci forsennato che scandisce con decisa evidenza i passaggi emotivi più forti e più repentini. È un assolo semplice Hai applaudito un criminale di e con Daniela Marazita, eppure spalanca un mondo di personaggi, suggestioni e riflessioni che si appiccicano addosso allo spettatore e risuonano a distanza di ore dalla visione. Che è poi essenzialmente un ascolto. L’ascolto di un racconto autobiografico che prende a pretesto l’esperienza di un laboratorio teatrale condotto con i detenuti della sezione G9 “precauzionali” di Rebibbia Nuovo Complesso per sviscerare paure, idee, pregiudizi, pulsioni, sentimenti universali e ancestrali. Gli stessi già raccolti nel bel libro omonimo scritto dalla medesima attrice (lo pubblica Robin Edizioni); gli stessi rintracciabili alla base di qualsiasi incontro teatrale voglia essere innanzitutto un incontro di umanità, una messa in discussione personale, un procedere alla ricerca di sé per tentativi, per illuminazioni, per atti di profonda generosità.

Daniela Marazita appare enorme in scena. La sua presenza vivace e fluida riempie lo spazio ristretto della rievocazione/rappresentazione, e questa intimità logistica le conferisce qualcosa di sacro, di separato, di ieratico. La voce è ora dimessa e colloquiale, ora invece lirica, altisonante e pure quando vira in sussulti e in toni flebili mantiene intatta la sua capacità di fabulazione. All’inizio del racconto c’è un lungo corridoio da attraversare velocemente. C’è la consapevolezza di un “fuori” e di un “dentro”. C’è la paura di essere troppo donna per poter affrontare quell’universo maschile colpevole di misfatti indicibili, per lo più a sfondo sessuale. C’è il timore di non farcela, di deludere, di aver sbagliato a dire sì, di esporsi ad una diversità “mostruosa” lontana anni luce dalla nostra presunta “normalità”. Poi arriva il luogo destinato agli incontri: una cappella gelida, con due panche, una statua di Padre Pio e un’altra della Madonna. Arrivano i detenuti, con le loro storie misteriose, gli occhi grandi e azzurri, gli accenti dell’Est, un passato da cantante, una romanità ruspante e irrinunciabile. Il teatro è già iniziato. La voglia di umanità è già in agguato.

d.marazitaRispetto alla lettura del libro, questo monologo, diretto da Alessandro Minati e animato dagli elementi di scena di Teresa Fano, condensa i passaggi salienti di un vissuto concreto (Daniela Marazita collabora dal 2006 con Fabio Cavallo e La Ribalta Centro Studi E.M. Salerno alle attività che si svolgono nella casa di reclusione romana) cercando un linguaggio – e anche un linguaggio del corpo – espressivo e perfino sovraesposto che punti chiaramente a di-mostrare come l’immaginazione, la poesia, la parola possano farsi vettori di libertà e di cambiamento. Come l’arte – e vale la pena risuonare retorici – permetta sempre di aprire dei varchi nel cuore umano. E, tanto più, come questo si somigli, a prescindere dalle vite individuali, dagli errori compiuti, dalle follie inseguite, dalle fragilità manifestate. «Chi è senza peccato, scagli la prima pietra», recita ad un certo punto l’interprete. E in un altro passaggio: «Io non sono vostra madre, né la direttrice, né un’insegnante di lettere, né una vostra parente. Sono un’attrice. E lo sono da trent’anni». Ma è proprio questo essere attrice a permettere un’osmosi tra i “prigionieri” e i “liberi”. È proprio la possibilità di essere altri da sé a pretendere una compassionevole cura dell’umano. Questo miracolo, che arriva in palcoscenico prendendo la forma di uno spettacolo conclusivo, è avvenuto però prima dell’apertura del sipario; ogni qual volta quegli uomini reclusi hanno recitato Palazzeschi (sono i versi dell’Assolto), Trilussa, Campanile, Shakespeare o Hikmet (meravigliosa la poesia Benvenuta, donna mia, benvenuta!). Ogni qual volta si sono ritrovati nelle chiesetta gelida a recitare, a improvvisare, a chiedere di dare voce alle parole scritte da altri.

Ferma sulla sua sedia/mondo che rappresenta quella realtà nascosta ma anche la nostra (la sua di donna/attrice che lavora altrove), Daniela Marazita si agita in una gestualità decisa, allunga le gambe, le agita come per camminare, si prende la testa tra le mani, si gira di lato, posa pietre e soffi vitali dentro quella scatola a forma di cubo che sembra comunicare con lo spazio intorno contenendo tuttavia una dimensione altra: non più quella fredda del carcere e nemmeno quella luminosa del “fuori”. Un mondo di mezzo, un sogno, un luogo impastato di fantasia. Perché è con la fantasia che si rinasce ogni volta e che le esistenze più diverse imparano a incontrarsi e a ri-conoscersi. E dunque questo piccolo lavoro, al di là dell’indubbio valore sociale dell’operazione da cui scaturisce, è soprattutto – evviva – un inno al senso del teatro, un grido di vendetta verso chi non ne comprende la necessità.

La sera in cui ho assistito al lavoro era venerdì 27 novembre e Daniela Marazita ha salutato il pubblico spendendo parole commosse in ricordo dell’amico e collega Luca De Filippo, la cui compagnia produce il monologo. L’improvvisa scomparsa del grande attore partenopeo non interromperà il progetto avviato a suo tempo da Eduardo con i ragazzi del carcere minorile di Nisida. E il fatto che Luca abbia voluto produrre Hai appena applaudito un criminale non può che confortarci nella convinzione che il teatro – quello vero ed onesto – avrà sempre la forza di trasformare la realtà. Per migliorarla. E migliorarci.

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