Alberto Fraccacreta
L'elzeviro secco

La luce di Beckett

Hamm, Clov e la luce che muore; la tenebra della speranza e la quantità della vita secondo Adorno: in «Finale di partita» di Beckett c'è una guida alla commedia quotidiana

«Clov: Ti lascio, ho da fare. Mamm: Nella tua cucina? Clov: Sì. Hamm: A far che, vorrei proprio saperlo. Clov: A guardare il muro. Hamm: Il muro! E che cosa ci vedi, sul tuo muro? Mane, tekel, fares? Dei corpi nudi? Clov: Vedo la mia luce che muore». Quattro personaggi: Hamm, padrone di casa cieco e incapace di reggersi in piedi, Clov suo servitore e ina­bi­le a sedersi, Nagg e Nell, de­cre­piti genitori di Hamm privi di gambe, che vivono in due bi­doni della spaz­za­tura. Niente di rilevante nella trama.

È evidente però il legame di Finale di partita, capolavoro beckettiano, con la Commedia dell’Arte e con la tragedia greca: nella dicotomia serrata, nel botta e risposta, che incolla gli spettatori alla sedia, ma con una finalità (e fatalità) diversa: non accade nulla.

Questo dramma non dice niente, non dà azione (il significato di drama in greco è proprio “azione”), se non rappresentando – in brevissimi segmenti di testo – la luce per suo latrocinio («Ma come vuoi che ci sia della luce da qualcuno?»). Hamm, Re nella scacchiera, co­me un giocatore dilettante, non ammette di aver perso la partita dell’esistenza e pronunzia alienato frasi a­lienate, pur di perseverare un briciolo di integrità nel dinamismo ultrastatico, fatto di impertinenze. Clov, unico Pedone rima­sto, tenta uno scacco faticoso per segnare la fine intricata dell’odia­to-amato padro­ne: non vi riesce.

La rappresentazione di questo Nulla cosmico nel suo quoti­dia­no ri­piegamento contro ogni tentativo di storicizzare la storia biologica di viventi con­dan­nati a morire o di morti condannati a vivere, risponde alla concezione adorniana per cui l’opera d’arte non può far altro che dichiarare la negatività del presente e avere una sua positività nell’asserzione del negativo. Fin qui però rimaniamo entro il consueto selciato dell’esistenzialismo.

samuel beckettProprio Adorno ha dedicato all’opera di Beckett pagine illuminanti raccolte nel volume Note per la letteratura. Secondo la sua consueta dialettica distorcente e irrisoria, il filosofo tede­sco mette in questione la vuotezza dell’esperienza come idealità di una pienezza non più sospi­ra­ta, ma vigente. «Se l’ontologia viveva della promessa inadempiuta di veder concretati i suoi dati astratti, in Beckett il concretismo dell’esistenza rinchiusa in se stes­sa a mo’ di conchiglia, ormai incapace di universalità, esaurentesi in un puro porre se stessa si palesa come in tutto simile all’astrattismo, incapace ormai di realizzare un’esperien­za. L’ontologia ritorna nella veste di una patogenesi della vita sbagliata, rappresentata come stadio di un’eterna negatività». Ma è questa specie di eterno ritorno del “No, grazie” che rimanda sempre la partita ad un altro campo, ad un altro stadio fantasma, ad un nuovo incontro tra gli esseri soffe­renti. Ed è proprio a tale sospiro che Beckett ci parla della realtà presente, di un antidoto al mondo globalizzato che spegne la luce sul volto delle persone.

È il “punto zero” che campeggia ora nello spazio scenico. Alla sua evidenza ed evenienza Be­ckett risponde poeticamente col qualcosa. Attori-personaggi idioti, lestofanti, spersi nel cre­pu­scolo di passaggio tra la maschera e il metateatro, combattono per affermare la loro non estraneità al mondo che li sostiene. Il globalizzato vuole schiere di facce indifferenti. Gli zeri della vita, questi personaggi minuscoli che hanno già perduto ogni dignità a esistere, si lanciano istrionicamente nel contrasto con l’affermazione della loro umanità, a dispetto delle passioni tristi da cui sono soggiogati. Il “punto zero” non corrisponde dunque al luogo di ciò che è di­sin­tegrato in eterno, ma prelude ad un ritorno spontaneo alle cose.

Il dramma vissuto in successione dalle “quattro pedine” effigia la controversa storia dell’irrappresentabile di questa società: una sofferenza invisibile e inane, un sorriso sostenuto, un’innocenza non ottem­pe­rata. Lo scandalo del Bene fuoriesce dal testo beckettiano in tutta la sua nuda concretezza: audace­mente sobrio, non inebria di messianismo gli spettatori che alla sua fonte si abbeverano, bensì li prepara per l’ultima preghiera. Ed essa sembra asserire: finché ci sarà il bagliore del qualcosa a bloccare il flusso di ogni ferita e la­cerazione, la gente potrà dire di non aver ancora perso la sua sgangherata partita, e il fi­nale, come per i di­lettanti, sarà rimandato. Rimandiamo la conquista definitiva delle coscienze: il gioco non si è ancora concluso.

Si va avanti, dunque. I tramonti sbiadiscono là dove «non c’è niente di più comico dell’in­feli­cità». Gli istanti travolgono le case e i tempi d’attesa. La commedia sopravvive tutti i giorni. Ma c’è pure un nuovo inizio oltre il graffio e gli abbagli, uno zero radicato a ter­ra che riconduce a quella speranza difficile da concepire, ma final­men­te riposta, suggeri­sce Beckett, «al suo posto estremo, sotto la polvere estrema».

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