Chiara Tozzi
Un saggio su letteratura e psicoanalisi

Jung & Nabokov

Nel racconto di Nabokov "La grazia", in sintonia profonda con il grande psicoanalista, c'è il senso stesso dell'analisi, della trasformazione che essa determina nel paziente. Mettendo in relazione il "film esterno" con il “film interno”

Il testo che qui proponiamo è stato letto dall’autrice al Fourth Joint Conference of the IAAP and IAJS: “Psyche, Spirit, and Science: Negotiating Contemporary Social and Cultural Concerns” il 10 luglio 2015, presso la Yale University, New Haven, USA.Poi a Bolgheri, il 13 Agosto 2015, nell’ambito della rassegna “Restiamo Umani”. E infine il 2 Dicembre scorso presso la sede A.I.P.A di Roma, nell’ambito della conferenza “The Experience of Grace”, assieme a Martin Schmidt (S.A.P, London). La IAAP (International Association of Analytical Psychology) è l’associazione internazionale  degli analisti junghiani. L’AIPA invece è l’Associazione Italiana Psicologia Analitica. Chiara Tozzi, analista, scrittrice e sceneggiatrice, come membro ordinario e didatta fa parte sia dell’associazione italiana che di quella internazionale.

Anche le cose cambiano, ma non te ne accorgi
se non cambi anche tu. Se però tu cambi,
si trasforma  anche il volto del mondo.
Carl Gustav Jung

Nel ricapitolare il senso e i punti salienti del proprio percorso analitico, la maggior parte dei pazienti con cui ho lavorato ha rappresentato la percezione della trasformazione vissuta nel corso del trattamento con le immagini che seguono: da un inizio confuso, e pieno solo di dolore, l’orizzonte si è fatto via via più ampio, più chiaro e più popolato. La sofferenza per se stessi è diventata progressivamente più tollerabile; e in modo direttamente proporzionale, la curiosità per le persone e gli eventi attorno, è aumentata. ««Il ricordo che ho delle prima volta in cui mi sedetti su questa poltrona» racconta un paziente «riguarda solo me stesso. Nella mia memoria di quella prima seduta c’è una specie di pozzo buio, popolato solo dal dolore; era come se io non vedessi né lei dottoressa, né gli oggetti del suo studio, ma solo  l’aspetto tremendo della mia faccia che, ne ero certo, rispecchiava ciò che mi attanagliava e da cui volevo essere liberato. Solo nel corso delle settimane, dei mesi e degli anni ho potuto iniziare ad “accorgermi, vedere e sentire” il resto delle cose, sia qui che fuori».

Quasi tutti i resoconti riportano questo andamento: l’esperienza di un possibile  benessere, che seppure difficile da focalizzare in un punto preciso come genesi, si accompagna alla percezione di un quid: qualcosa di difficile da spiegare con le parole ma percepito pienamente nella composizione di sedute particolarmente emozionanti, dove – uso le parole di pazienti – «si è toccato il punto più profondo»… «si è stabilita una connessione fra fatti accaduti e il relativo sentimento»… «si è afferrato e recuperato il proprio modo di essere».

Concordo con alcuni dei miei pazienti nel percepire e definire l’essenza della trasformazione vissuta come un possibile stato di grazia: una condizione al tempo stesso psicologica, affettiva ed esistenziale di congiunzione fra coscienza ed inconscio, fra se stessi come individui e il mondo attorno; un dono inaspettato e un’esperienza difficile da spiegare, la cui traduzione risulta possibile solo attraverso manifestazioni espressive simboliche, come l’arte e la condivisione di forme rituali. L’esercizio della immaginazione attiva sperimentata e praticata da Carl Gustav Jung e straordinariamente illustrata nel Libro Rosso, rappresenta una sintesi creativa illuminante di questa forma di esperienza. Ma… come spiegare in modo non troppo complesso le caratteristiche di questo percorso individuativo? La stessa definizione di “tecnica” per raggiungere questa meta, e usata comunemente per descrivere l’immaginazione attiva, per quanto esemplificativa, appare insoddisfacente e non corretta – come fa notare Gerhard Adler – allo stesso modo in cui non si potrebbe parlare di una «tecnica del sogno». Ci pare dunque più pertinente adottare il termine “atteggiamento”, usato dallo stesso Adler, per definire la paradossale “passività attiva” con cui disporsi verso ciò che può emergere dal nostro inconscio: un atteggiamento descritto da Adler come simile a quello vissuto da chi guarda un film o ascolta della musica: in entrambi i casi si sta seduti e “si riceve” qualcosa che non è prodotto dallo spettatore o dall’ascoltatore, ma che accade; e il cui senso profondo può essere esperito solo grazie a una ben precisa forma di attività. La sola differenza, specifica ancora Adler, è che, nell’immaginazione attiva, “il film” viene creato e proiettato all’interno.

Sia nel mio lavoro di analista che in quello di scrittrice e docente di scrittura e sceneggiatura, ho riscontrato come il benessere individuativo e creativo derivino dalla possibilità di assumere ed esperire profondamente questo diverso atteggiamento con cui poter osservare e vivere, con identico grado di affettività, il “film interno” della propria vita psichica e il “film esterno” che la quotidianità e il mondo reale ci riservano; rilevandone dettagli e curiosità e percependone la bellezza, così come le connessioni talvolta sorprendenti che il dolore e l’abitudine tendono ad opacizzare o a celare del tutto. E sia con i miei allievi dei corsi di Scrittura Creativa e Psicologia, sia durante il lavoro di psicoterapia analitica, mi è capitato più volte di fare esplicitamente riferimento al racconto di Vladimir Nabokov (nella foto accanto al titolo) La Grazia, per la sua capacità metaforica e simbolica di “spiegare” la trasformazione a cui mi riferisco. Devo dire che più volte, nel leggere la narrativa nabokoviana, mi è capitato e mi capita di percepire un’affinità creativa e psicologica con la narrazione di Carl Gustav Jung: soprattutto quando questa narrazione riguarda “storie di vita”, sia autobiografiche, che di pazienti. Già nello stile, che sia in Nabokov sia in Jung è strettamente collegato al contenuto, si possono riscontrare affinità notevoli e interessanti. Il linguaggio che Jung usa, è quasi sempre simbolico: «La lingua che parlo deve essere ambigua, ossia a doppio senso, per adeguarsi alla natura psichica col suo duplice aspetto», afferma Jung nel 1952. E forse molta della fascinazione e potenza della sua comunicazione, è dovuta proprio a questo doppio livello: ovvero a quello che sia in letteratura che in psicologia, si definisce come “sottotesto”. Dal canto suo Nabokov, nella doppia, se non addirittura molteplice stratificazione di livelli narrativi, è certamente un maestro: il gioco di specchi labirintico che egli è capace di creare raccontandoci una storia, ha qualcosa di prestigioso. L’oggetto e i personaggi della sua narrazione, il narratore e il lettore, così come la trama, si sdoppiano, si scambiano, si rispecchiano e si sfaccettano con funambolica leggiadria, facendoci affondare in una realtà narrativa assai affine a quella del sogno e delle fiabe più fantasiose: ancor più che il celebre Lolita, i suoi romanzi Il Dono («The Gift»,1963), Cose Trasparenti («Transparent Things»,1972) e La vera vita di Sebastian Knight («The Real Life of Sebastian Knight», 1941), forniscono una vivida dimostrazione di questo suo straordinario talento.

Carl Gustav JungIl mio appassionato interesse per l’opera di questi due grandi maestri, mi ha portato a scoprire come la padronanza e la sapiente lucidità con cui sia Jung (nella foto qui accanto) che Nabokov riescono a padroneggiare questa duplicità psicologica e comunicativa, abbia origine da  sorprendenti affinità diciamo così “formative” per entrambi. Il racconto che Jung ci offre della sua prima infanzia, dei suoi rapporti familiari e del suo progressivo rapporto con il mondo in Ricordi, Sogni e Riflessioni, ha davvero molti elementi in comune con quello che Nabokov ci consegna nella sua autobiografia Parla, ricordo (Speak, memory). Lo speciale e affettivo modo di giocare attraverso il cogliere le immagini della realtà quotidiana interpretandole, elaborandole e ricostruendole in modo contemporaneamente soggettivo e oggettivo, visionario e letterale, pare accomunare entrambi fin dall’infanzia. Così come una spiccata capacità intuitiva e una precoce possibilità di esperire accadimenti e nessi difficilmente spiegabili attraverso la logica e l’esperienza sensoriale, appartengono alla memoria autobiografica di entrambi.

Quelle particolari fantasticherie che permettevano al piccolo Jung di osservare ad esempio il quadro con il ritratto di un antenato fino a vederlo animarsi e agire, e che  lo porteranno in età adulta all’esercizio dell’Immaginazione Attiva, trovano corrispondenza nelle affascinanti “visioni” infantili di Nabokov, che ne descrive la propria esperienza così: «Sin dove giungono i miei ricordi di me stesso… io sono andato soggetto a blande allucinazioni… Esse vanno e vengono, senza la partecipazione dell’assonnato osservatore, ma differiscono essenzialmente dalle immagini oniriche, poiché egli è ancora padrone dei suoi sensi»; e questa esperienza, comune a entrambi fin da bambini, risulta rinforzata positivamente ad entrambi da un affine riscontro materno. Come Jung, anche Nabokov ci racconta della serena accoglienza che sua madre riservava a certe sue esperienze di precognizione e percezione parasensoriali da lui vissute da bambino, comunicando che anche lei le aveva vissute e le viveva: «Oh sì!» ella soleva dire quando io accennavo a questa o a quell’altra esperienza inconsueta. «Sì, conosco già tutte queste cose…». E il commento che da adulto Nabokov darà a questa restituzione materna, ci dice che «l’intensa e pura religiosità di mia madre si traduceva nel fatto che ella riponeva un’uguale fede nell’esistenza di un altro mondo e nell’impossibilità di capirlo in termini di vita terrena. Una sola cosa era possibile intravedere, tra le brume e le chimere, qualcosa di reale dinanzi a sé, come le persone capaci di una persistenza eccezionale nell’attività mentale diurna riescono a percepire nel sonno più profondo, in qualche punto al di là dei travagli di un incubo intricato ed inetto, l’ordinata realtà dell’ora del risveglio».

L’affinità di esperienza di un atteggiamento aperto a curioso verso ciò che non è consueto ed empiricamente dimostrabile, vissuto sia da Jung che da Nabokov, pare essere riconducibile da entrambi a quella particolare «permeabilità della membrana fra conscio e inconscio», da Jung definita vantaggio e caratteristica specifica delle persone creative, capaci più di altre anche per questa permeabilità di attingere a quell’unico e immenso contenitore di energia psichica e di immagini universali che è l’inconscio collettivo, e di tradurre in linguaggio simbolico l’evocazione collettiva dell’esperienza archetipica; Nabokov ribadisce in modo poetico la medesima considerazione, sostenendo che «esiste, si direbbe, nella scala dimensionale del mondo, una sorta di delicato punto d’incontro tra immaginazione e conoscenza; un punto al quale si perviene impicciolendo le cose grandi e ingrandendo quelle piccole, che è intrinsecamente artistico». Così come l’apertura verso possibilità impensabili – ma “immaginabili” – della vita, oltre a evocare la concezione junghiana di sincronicità come possibile collegamento tra materia e psiche, pare accomunare Nabokov e Jung  nella dedizione alla ricerca delle connessioni significative che possono dare senso all’esistenza. Ed è sorprendente come, se per Jung questa meta esistenziale che può trasformare il modo di percepire e vivere la propria vita venga definita “individuazione”, Nabokov affermi in modo quasi identico che «l’individuazione degli sviluppi tematici che corrono nella vita di un individuo dovrebbe essere, a parer mio, il vero scopo dell’autobiografia».

Le opere e la vita di Jung e di Nabokov, anche se svolte attraverso discipline e strade diverse (è da sottolineare come Nabokov manifestasse ripetutamente la propria idiosincrasia verso tutto ciò che aveva a che fare con la psicoanalisi e in particolare con le teorie di Freud!), sono caratterizzate inoltre da un atteggiamento di fiducia irriducibile verso ciò che può accadere, che pare sostenuta più che dalla logica, da una devozione quasi religiosa, palese nelle parole di Jung quando afferma: «La grazia divina indica un particolare stato dell’animo in cui mi affido con tremore e titubanza a tutto ciò che verrà, animato dalla più intensa speranza che tutto finirà bene». Qualcosa che pare avere a che fare con l’abbandono ricettivo all’esperienza della grazia, che noi tutti possiamo sperimentare vivendo, creando, lavorando. «Che strano dottoressa…» mi disse dopo alcuni anni di analisi un paziente che aveva faticato molto a liberarsi dalle catene dello scetticismo plumbeo e depressivo a cui lo condannava l’assoluta dominanza della sua funzione pensiero, «…il cambiamento dell’analisi lo puoi vivere solo se ci credi… anche quando crederci ti pare la cosa più incredibile!».

Vladimir -Nabokov2Di fatto, quando un paziente arriva nel nostro studio, l’energia assorbita dal sintomo che lo possiede e che ci porta, lo rende paralizzato, cieco, sordo e spesso anaffettivo rispetto al senso della sua storia individuale e alla storia collettiva che lo include. Proprio come la situazione in cui si trova il protagonista del racconto di Nabokov (nella foto) La Grazia, con cui vorrei tentare di illustrare qui la “incredibile” ma possibile trasformazione individuativa della Psicologia Junghiana.
La vicenda si apre con un’immagine che è al tempo stesso visiva a narrativa. Siamo a Berlino, è l’alba, e un uomo se ne sta seduto su una poltrona di vimini. Dietro di lui, un fondale disegnato sul telone lilla, con un frammento di balaustra, un’urna biancastra e un nebuloso giardino. Quell’uomo è rimasto seduto lì tutta la notte pensando a una donna, la cui presenza dilaga nella sua vita: non solo nei pensieri che lo hanno tenuto sveglio, ma anche nel suo lavoro. Veniamo infatti a sapere che di professione fa lo scultore; e che il centro caldo del suo lavoro, ultimamente, è costellato solo dall’immagine di una donna, che possiamo intuire abbozzata nell’argilla, e la cui l’immagine femminile inizia a materializzarsi: «Un po’ per volta dal buio affiorarono nella nebbia polverosa delle forme di argilla – una, imbacuccata in uno straccio umido aveva le tue sembianze».

L’uomo ha scoperto che la donna lo tradisce. Ha chiesto spiegazioni. Non ne ha avute, e per questo i due non si sono visti per due settimane. Poi, non resistendo, lui le ha telefonato e ha fissato un appuntamento per quel pomeriggio, alla porta di Brandeburgo. L’uomo ha un solo obiettivo, una sola meta da realizzare: quello di riconquistare l’amore della donna che ama. A contrastare questo obiettivo, c’è però un altro uomo. Qualcuno che si frappone fra lui e lei, e che impedisce al nostro protagonista di avere un possesso totale della donna: quel possesso fusionale e simbiotico che gli permetterebbe di dormire tranquillo e di non sentirsi talmente privo di dignità da ridere di se stesso. Leggendo la vicenda da un punto di vista sia narrativo che psicologico, potremmo dire a questo punto che l’uomo si trova a soffrire per una ossessione amorosa. Che questa ossessione lo sta paralizzando e sfinendo sia psicologicamente che fisicamente. Che si sta interrogando su chi sia, cosa voglia e perché soffra così tanto; e che la risposta che si dà, al momento, ovvero il senso della sua vita che gli sembra smarrito e che sta cercando di ritrovare, egli è convinto stia solo nell’essere amato da quella donna bugiarda e selvatica e dalla sua voce lontana e inquieta. Nel momento in cui il protagonista del racconto ci si presenta dunque, il suo livello di consapevolezza – e con questo il senso della sua vita – è delimitato e circoscritto dall’ossessione amorosa: «Ti parlavo con le palpebre serrate per la tensione, avevo voglia di piangere. L’amore che ti portavo era un palpitante, crescente tepore di lacrime. Era esattamente così che mi rappresentavo il paradiso: silenzio e lacrime, e la calda seta delle tue ginocchia. Tu non riuscivi a capirlo». Non è questo lo stato d’animo in cui si trova la maggior parte delle persone che si apprestano a iniziare un lavoro analitico? Paralizzati da una mancanza e/o da un sintomo. Incapaci di dare un senso alle proprie giornate, al proprio lavoro, ai propri sonni. Dominati, posseduti, per dirla in termini junghiani, da un complesso. E, per questo, con una consapevolezza e un orizzonte ristretti, claustrofobici e demotivanti.

Anche Carl Gustav Jung,  dopo le angosciose visioni e i sogni vissuti fra l’ottobre del 1913 e l’estate del 1914, si sentiva in uno stato analogo. Quello che, in Ricordi, Sogni e Riflessioni, Jung ci racconta così: «Si scatenò un flusso incessante di fantasie, e feci del mio meglio per non perdere la testa e per trovare il modo di capirci qualcosa. Ero inerme di fronte a un mondo estraneo, dove tutto appariva difficile e incomprensibile. Vivevo in uno stato di continua tensione, e spesso mi sentivo come se mi cadessero addosso enormi macigni».

Ma torniamo al racconto di Nabokov. Per cercare di trovare una soluzione al suo tormento, il protagonista si mette in cammino. Vuole, deve raggiungere la sua meta, ma non è sicuro di farcela. «Camminavo e pensavo che sicuramente non saresti venuta. E se anche fossi venuta, avremmo litigato di nuovo. Io sapevo solo scolpire e amare. E a te non  bastava». È questa la condizione in cui ci poniamo nel momento in cui iniziamo un lavoro analitico: con la paradossale sensazione di andare verso una meta, pur sentendoci impotenti, timorosi e incapaci di raggiungerla. È il momento dell’attesa nel suo significato etimologico più profondo, quello che deriva dal latino ad-tendere, e che evoca la posizione dinamica di tendere-a.

Il percorso successivo del protagonista e della narrazione si sviluppa attorno a questo senso di necessità e impotenza al tempo stesso: l’uomo raggiunge il luogo dell’appuntamento, la porta di Brandeburgo, e si mette ad attendere. Attorno a lui, il movimento delle persone, degli impiegati che tornano a casa, degli autobus che continuano la loro corsa, fa da contrappunto all’ombra fredda dell’angolo in cui si è riparato in attesa, fra le colonne, vicino alla finestra con la grata del posto di guardia.

Ed è qui che nel guardarsi attorno ansioso alla ricerca dell’immagine amata, l’uomo nota qualcosa; o meglio, qualcuno: «…seduta su uno sgabello, c’era una vecchina marrone, corta di gambe, paffuta, con un tondo viso butterato; anche lei aspettava».

Il nuovo personaggio che entra in scena nel racconto, è un inaspettato, sconosciuto e apparentemente insignificante: il protagonista vi presta attenzione solo perché si trova vicino a lui. C’è una bancarella che vende cartoline, mappe, ventagli di foto a colori, e la vecchina è la venditrice. Nessun punto di contatto apparente fra lo scultore innamorato e questa donna anziana, la cui espressione sembra voler dire: «Io non c’entro, mi trovo qui per caso; si, è vero, sono seduta vicino a questa bancarella: cosette carine, curiose. Ma io non c’entro…». Però, «anche lei aspettava». Ed ecco che l’attenzione del protagonista viene catturata dal significato di quell’immagine, che si staglia sulle altre, nella casualità dell’andirivieni del pomeriggio, in virtù di un collegamento: due persone diverse fra di loro per età, condizione sociale, cultura e aspetto, ma accomunate dalla situazione esistenziale. Attendono tutti e due qualcuno. E all’uomo viene da porsi una domanda, che per la prima volta non è solo sul suo destino, ma su quello di sé e di un’altra persona: «Pensai: chi per primo vedrà premiata la sua attesa, chi arriverà per primo – un cliente o tu?».

carl gustav jung2L’orizzonte visivo si sta allargando. È bastato guardarsi attorno: fare caso al movimento apparentemente insignificante delle cose attorno… ed accade qualcosa. O arriva qualcuno. In questo caso, arriva un “compagno di sventura”. Una persona nella stessa condizione, capace di catturare per questo l’involontaria simpatia del protagonista. Certo, il semplice manifestarsi di una similitudine di condizione, non è in grado di modificare il corso della vita e lo stato d’animo dell’uomo, che continua a soffrire, attendendo. Ma adesso, questa sua attesa non è più la stessa, perché si sta attivando in lui una rappresentazione di immagini, il cui potere terapeutico e trasformativo viene così definito da Jung (nella foto) a proposito dell’adozione di un “atteggiamento” di Immaginazione Attiva: «Finché riuscivo a tradurre le emozioni in immagini, e cioè a trovare le immagini che esse nascondevano, mi sentivo interiormente calmo e rassicurato. (…) Il mio esperimento m’insegnò quanto possa essere d’aiuto –da un punto di vista terapeutico-  scoprire le particolari immagini che si nascondono dietro le emozioni. (…) Perché, finché non ne intendiamo il significato, tali fantasie sono un diabolico miscuglio di sublime e ridicolo».

Di fatto, adesso anche per lo scultore di Nabokov la visione e lo sguardo si sono come sdoppiati, isolando l’immagine dalle emozioni che lo possedevano… e che lo facevano sentire (proprio come Jung), in preda a un diabolico miscuglio di sublime e ridicolo capace di farlo scoppiare «a ridere senza sapere io stesso di cosa ridevo,- forse del fatto che me ne ero rimasto seduto tutta la notte su una poltrona di vimini, tra pattume, schegge di gesso e polvere di plastilina secca, pensando a te». L’uomo ora non attende più solo per sé, ma anche per la vecchina della bancarella.  La sua energia affettiva non è più catalizzata esclusivamente da una donna-Anima che lo possiede, ma anche da un altro essere umano.  E questo spostamento di campo, questa possibile adozione di un diverso atteggiamento (quello che rende possibile l’Immaginazione Attiva, come direbbe Adler), permette che subentri in lui il fattore curiosità: quella molla, quella scintilla, che può accendere un bagliore di luce calda nel freddo della depressione e del dolore.  Quell’espediente narrativo che determina il mordente di una storia, e che ci fa venire voglia di andare avanti per sapere cosa accadrà, e come andrà a finire. Da tempi immemorabili, è proprio grazie a questa curiosità esistenziale verso qualcosa di sconosciuto e nuovo, che si manifesta attraverso l’animazione e l’attivazione delle immagini (e dunque nella narrazione di storie), che possiamo…salvarci la vita: come insegna la vicenda di Sherazade, che sopravvisse soltanto perché seppe mantenere il re in una condizione di dubbio circa quello che sarebbe successo poi, fermandosi a metà di una frase, e lasciandolo in uno stato di sospesa e vitale curiosità; «In quel momento Sharazade vide spuntare l’alba e, discreta, tacque». Come evidenzia Edward Morgan Forster, questa piccola frase apparentemente senza interesse, è la spina dorsale delle Mille e una Notte, e l’espediente creativo grazie al quale la vita di una principessa piena di risorse fu risparmiata.

Ed ecco infatti che, da questa inaspettata scintilla di curiosità e da questo allargamento di visuale, le cose cambiano anche per il protagonista del racconto di Nabokov. È passata un’ora ormai dall’orario dell’appuntamento. Fa sempre più freddo, la donna attesa non è ancora arrivata e lui ancora soffre. Ma ora la sua sofferenza è diventata empatica. Non è più una sofferenza autoriferita: come non arriva nessuno per lui, non sta arrivando nessuno neanche per la vecchia venditrice. Ed egli può mettersi nei suoi panni, e immaginare e sentire quello che sente lei: «Credo che fantasticasse di un riccone straniero, un americano di Adlon, che comprava tutta la merce pagandola più del suo valore, e poi le ordinava ancora tante cartoline con vedute di Berlino, guide d’ogni tipo. Anche lei non doveva aver caldo, con quel pellicciotto di felpa».

Come in ogni fiaba, il riuscire ad abbandonarsi a una situazione nuova, sconosciuta ed estranea, sacrificando qualcosa di sé a favore di altro o di altri, è in grado di operare quella magia che Jung ha definito trasformazione. È allora infatti, che accade qualcosa: «E all’improvviso la finestra del posto di guardia si aprì, e un soldato tutto verde chiamò la vecchina: “Ehi!…”. lei scivolò giù svelta dal suo sgabello e  sgambettò, pancia in fuori, verso la finestra. Con calma, il soldato le porse un gotto fumante e richiuse la finestra. La sua spalla verde si girò e scomparve nelle buie profondità del locale».

Quello che accade nel racconto, l’inaspettato, chiamiamolo così “colpo di scena”, non accade al protagonista, ma alla vecchia venditrice. Ma,in virtù della trasformazione che l’ampliamento di orizzonte e la comprensione empatica hanno generato, l’accadimento positivo per la donna è capace di riflettersi anche nell’uomo, dando una svolta significativa alla sua vicenda. Ora egli osserva e comprende i sentimenti e la vita di un altro essere umano. Una donna infreddolita che beve una tazza di caffè caldo, non è più un fatto insignificante per lui, che è afflitto da una pena amorosa… perché egli adesso è in grado di sentire empaticamente non solo la sofferenza, ma anche il piacere altrui: «Bevve a lungo, a lente sorsate, leccando con venerazione la frangia di schiuma, scaldandosi le palme sulla latta calda. E nella mia anima si diffondeva un oscuro, dolce tepore. Anche la mia anima beveva,si riscaldava, e la vecchina marrone sapeva di  caffelatte…».

La possibilità di assentarsi dal proprio dolore. La possibilità di guardarsi attorno. La possibilità di scoprire che esiste un’affinità e un collegamento fra la nostra vita, la nostra sofferenza e la nostra  gioia, e  la vita, la sofferenza e la gioia degli altri, fa sparire quella che Leonardo Sciascia definì l’invisibilità dell’evidente, e rende possibile un altro modo di vedere e sentire il mondo. Il punto di vista della narrazione e dell’esperienza, si è capovolto; tanto che Nabokov può raccontarci attraverso la percezione dello scultore:«…E in quel momento, finalmente, arrivasti; per l’esattezza non arrivasti tu, ma una coppia di tedeschi».

Ora che l’attesa dello scultore è diventata l’attesa della vecchina marrone,  la sua speranza è quella che i due tedeschi comprino qualcosa. I due si soffermano, guardano, soppesano… ma poi non acquistano: «La coppia proseguì per la sua strada senza comprare nulla». Ma lo scultore può vivere questafrustrazione in modo diverso: proprio come la vecchina marrone, che «si limitò a sorridere, poi rimise a posto le cartoline e sprofondò di nuovo nel suo libro rosso». Si possono anche subire una perdita, un dolore e una mancanza… ma se si è appassionati a qualcosa che non è esclusivamente l’appagamento di un proprio bisogno, perdita e dolore diventano tollerabili. Nel caso della vecchina marrone, il piacere della lettura del proprio “libro rosso” (sincronica e divertente coincidenza… per questa mia esposizione!) e l’inaspettato dono di un bicchiere di caffèlatte caldo, rendono la vita apprezzabile e soddisfacente anche se materialmente disagiata e (apparentemente)priva di successo. L’anima del nostro scultore si è intrisa di questo modo diverso di esperire la vita… e si è trasformata.

Fin qui il racconto di Nabokov. Ma noi? Noi come psicologi analisti che si rifanno alla concezione di Jung, che ruolo abbiamo in questa trasformazione? Come possiamo contribuire a facilitarla ed attivarla attraverso il nostro lavoro? Per Jung, «la causa efficiens della trasformazione, è un atto di grazia spontaneo da parte di Dio (…) Nell’azione rituale l’uomo si mette a disposizione di un autonomo ‘Eterno’, cioè di un ‘Operante’ che esiste al di là delle categorie della coscienza-si parva licet componere magnis- un po’ come un buon attore non si limita a rappresentare il personaggio, ma si lascia possedere dal genio del drammaturgo». In altre parole: noi dobbiamo essere capaci di attivare “l’atteggiamento” dell’immaginazione attiva nei nostri pazienti e renderli capaci di farsi possedere dal genio del drammaturgo, non tanto insegnando loro a ‘vedere’ e ‘capire’ razionalmente le immagini psichiche materializzate dal loro inconscio, ma accompagnandoli nell’impresa di viverne il senso simbolico e profondo, sia individuale che collettivo, nella quotidianità. Ma noi non saremo mai capaci di fare questo, se non avremo vissuto a nostra volta la stessa esperienza: l’atteggiamento dell’immaginazione attiva infatti non è qualcosa che si possa insegnare o spiegare, ma ‘solo’ incarnare esistenzialmente. Per usare la metafora fornita da Nabokov con il suo racconto, noi non solo dovremmo in qualche modo acquisire quella speciale capacità di narrare una storia apparentemente banale, rivelandone strato dopo strato i diversi livelli di senso: ma dovremmo anche aver attraversato, e dunque saper condividere empaticamente, l’angoscia penosa dello scultore; così come, dovremmo riuscire a possedere, incarnare e rappresentare la leggerezza calviniana, quella «speciale modulazione lirica ed esistenziale che permette di contemplare il proprio dramma come dal di fuori e dissolverlo in malinconia e ironia», che possiede la “vecchina marrone” di Nabokov: che può ricevere e godere di un dono benefico, proprio in virtù della sua fiduciosa pazienza; una pazienza dunque, permeata di leggerezza.

Questo io credo significhi di fatto mettersi a disposizione di un autonomo “Eterno”, di quell’ Operante che esiste al di là delle categorie della coscienza. E in virtù di questo, da soli e con i nostri pazienti, potremo allora sperimentare come ci dice Jung quell’essere là, dove non ero più solo, ero fuori dal tempo, appartenevo ai secoli.E come lo scultore del racconto, avere accesso a una trasformazione davvero significativa e profonda che, nel suo racconto, Vladimir Nabokov, ci restituisce così: «Sentii allora la tenerezza del mondo, la profonda grazia di tutto ciò che mi circondava, il dolce legame tra me e tutto l’esistente,- e compresi che la gioia che cercavo in te non solo in te si nascondeva, ma respirava intorno a me in ogni luogo, nei suoni sfreccianti della strada, nell’orlo comicamente sollevato di una gonna, nel metallico e tenero rombo del vento, nelle nubi autunnali gonfie di pioggia. Capii che il mondo non è assolutamente lotta, non è successione di casi rapaci, ma una gioia vibrante, una benefica emozione, un dono che non apprezziamo».

 

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