Lidia Lombardi
Al Teatro Vittoria di Roma

Wilde e l’ipocrita

Roberto Valerio e Valentina Sperlì ripropongono "Un marito ideale" di Oscar Wilde, dove il sarcasmo del grande irlandese mette a nudo gli scheletri di una borghesia malata

Oscar Wilde morì nel 1900, pare per una banale otite mal curata. Aveva 46 anni, non possedeva che poche sterline, aveva conosciuto il carcere dove era stato condannato ai lavori forzati per omosessualità. Eppure i suoi lavori erano famosi in tutto il mondo, specie le commedie. Ammaliavano le sue parole, l’abilità dialettica, l’humour dei paradossi e degli aforismi. Erano le armi con le quali, sottilmente, Wilde si impossessava dei propri spettatori, sferzandoli nel loro perbenismo teso a nascondere il marcio che ciascuno celava sotto il cappello a cilindro o le trine dell’abito. Il ventaglio di Lady Windemere, Una donna di nessun conto, L’importanza di chiamarsi Ernesto si ambientano nei salotti borghesi, ma l’enfant terrible Wilde tra calembours e raffinatezze verbali raschia le meschinità umane, vendicandosi dei crucifige inflittigli.

Anche Un marito ideale, del 1885, dunque l’ultima piéce per così dire leggera, viaggia sullo stesso binario compositivo. Senonché il protagonista messo alla gogna è un leader politico dal dubbio passato e perciò assai in sintonia con i nostri tempi. Sicché la messinscena prodotta dalla Compagnia Umberto Orsini può vantare un successo che dura da quattro stagioni e di nuovo è applaudita a Roma, al Teatro Vittoria, dove si replicherà fino al 29 novembre. A ragione, perché si sostiene su una drammaturgia brillante e allo stesso tempo impegnata e su una realizzazione scenica che esalta le virtù del testo. Insomma, un teatro classico, un teatro di parola, che dimostra di saper reggere quanto altre proposte meno convenzionali.

Ma chi è “il marito ideale” per Wilde? Un sottosegretario agli Esteri che ha agguantato la propria irresistibile ascesa grazie a un episodio di corruttela pubblica: ha svelato un segreto di Stato a un uomo di affari, che ne ha tratto profitto arricchendosi a dismisura. E però, ora che sir Childern si divide tra Governo e salotti e ha una moglie che vede in lui lo specchio della moralità e della quale è profondamente innamorato, piomba in casa sua l’intrigante lady Cheveley. Lei conosce lo scheletro nell’armadio del politico e lo ricatta. Childern è col nodo alla gola. La moglie scopre il suo peccato originale e vuole lasciarlo. Lui arriva a promettere che lascerà la vita pubblica, per espiare e farsi accettare dalla consorte. A sciogliere la vicenda è un amico, Lord Goring, personificazione dell’assunto di Wilde: uno snob che non si preoccupa di non far niente nella vita, se non osservare l’animo umano, traendone molti insegnamenti però. E una sapienza che gli permette di giudicare gli individui senza preconcetti. Così non ha pietà a smascherare l’affascinante lady Cheveley, capace di vivere solo di espedienti dietro il vezzoso sventolio delle sue piume. Ma ne ha pure per l’intransigente Gertrudh Childern, che riconduce a miti consigli nei confronti del marito: gli sia devota accentandolo com’è, con le sue ambizioni e i suoi errori del passato e non idealizzandolo come simulacro di una perfezione che non esiste.

Wilde dunque compie un’operazione sottile: smaschera dall’interno i guasti dell’ipocrita società vittoriana, non negando però la vittoria del bene sul male e perfino un consolatorio lieto fine. Gli basta segnalare che ognuno non è ciò che appare, dal politico alla donna di mondo, dalla mogliettina allo scapolo dandy, appunto quel lord Goring voce della coscienza cui affida la vera vittoria morale.

E che sia un mondo alla rovescia quello disegnato da Wilde lo anticipa Roberto Valerio, al quale si devono regia e adattamento del lavoro nonché la parte del suadente e umiliato Childern: all’avvio della commedia tutti i personaggi animano il palcoscenico con un sincronico ralenty di indietreggiamenti, come avviene a una pellicola che si riavvolge. Poi il via all’azione, con gli interpreti che funzionano a dovere in una macchina scenica oliatissima, rafforzata dalle battute caustiche del drammaturgo. Valentina Sperlì è una lady Cheveley sensuale e velenosa, Chiara Degani una legnosa Gertrudh, Pietro Bontempo un lord Goring capace d’umorismo e buon senso, alter ego di Wilde. Con loro Alarico Salaroli, il conformista padre di Goring, e Luca Damiani, nella doppia parte di compunto maggiordomo tuttofare ad uso del politico e dello snob.

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