Nicola Bottiglieri
A proposito di “Ciao", Rizzoli

Telemachia Veltroni

Il romanzo-testimonianza di Walter Veltroni è un la storia di una paternità negata: l'autore confeziona una sorta di radio di carta per rendere omaggio al padre, grande talento radiofonico

Di solito gli scrittori maschi ad un certo punto della loro vita fanno i conti con il padre. Ricordo la Lettera al padre di Franz Kafka, Il cammino di San Giovanni di Italo Calvino, i più recenti Geologia del padre di Valerio Magrelli, Vita e morte di un ingegnere di Edoardo Albinati, ma di sicuro ve ne sono altri che non conosco, perchéil tema della ricerca del padre è costante nella narrativa contemporanea. Eppure tutti questi testi parlano di un padre vivo, una persona presente fisicamente nella vita dello scrittore, ma cosa succede se si fa riferimento ad un padre inesistente, alle vite troncate di uomini scomparsi quando i loro figli sono piccoli, non in grado di ricordare? Anche a questa domanda è stata data dalla letteratura una risposta copiosa ed affranta con i libri di Mario Calabresi (Spingendo la notte più in là), di Benedetta Tobagi (Come mi batte forte il cuore), di Umberto Ambrosoli (Qualunque cosa succeda), e di sicuro anche in questo caso ve ne sono altri che non conosco.

walter veltroni ciaoQuello che differenzia Ciao (Rizzoli, 248 pagine, 18,50 Euro), il libro-testimonianza di Walter Veltroni dai precedenti è che il padre Vittorio non è stato ucciso dalla mafia o dal terrorismo ma dalla vita stessa, morendo di malattia a 38 anni, quando il figlio Walter aveva un anno e pochi mesi. Certo, c’è una bella differenza nel sapere se il proprio padre sia stato ammazzato con un colpo di pistola oppure sia morto di morte naturale, ma in entrambi i casi il ricordo del genitore assente, il tentativo di colmare quel vuoto, fa sanguinare le parole a tal punto che il racconto finisce per avere toni epici. Perciò non è sbagliato in questi casi fare riferimento alla Telemachia, vale a dire i primi quattro canti dell’Odissea – che, come è noto, è una aggiunta posteriore al racconto di Ulisse – dove si racconta del figlio che va alla ricerca del padre mai conosciuto seguendo le voci ed i consigli di quanti ebbero a che fare con lui.

Il libro di Veltroni può essere definito una piccola Telemachia, che si svolge a Roma e dintorni, vissuta nella seconda metà del secolo XX, con sbavature fino ai giorni nostri. È una Telemachia struggente e pacata proprio perché egli sa che non deve dare la colpa a nessuno per essere stato un orfano, condizione che ha segnato la sua personalità. «Mio padre mi è sempre mancato… non l’ho conosciuto, è morto che avevo un anno. Non ho neppure una foto con lui, un biglietto in cui mi dicesse qualcosa, magari per il futuro. Non so quanto mi ha tenuto in braccio, se mai mi ha dato un bacio…» pagina 35. Ricerca dunque del padre e del suo mondo oramai scomparso, ricerca delle radici del proprio essere nel bambino che si è stati e di una città più viva, di una Italia uscita dalla guerra piena di ottimismo e di futuro.

veltroni alla radioTuttavia il pregio del libro non consiste in questa rievocazione storica, né nelle numerose testimonianze di quegli anni, né nell’esposizione delle stigmate sanguinanti, ma in un’altra linea di ricerca: mi riferisco al rapporto con le parole, alla nostalgia di un rapporto che gli italiani avevano con le parole che la radio esaltava, oramai scomparso con la televisione. Una densità di senso anche nelle immagini del cinema di quegli anni, oramai sbiadite dai mille schermi al plasma che ci circondano. Ma andiamo per ordine, perché questo libro che possiamo definire una vera e propria radio di carta, ci sfugge dalle mani, oscillando fra visione e testimonianza, fra passato e presente, proprio come succede quando ascoltiamo la radio ed i rumori della vita quotidiana si mescolano con le parole che escono dall’apparecchio!

Il protagonista di questo romanzo autobiografico e testimoniale (ma è proprio un romanzo?) una sera di agosto di questo sconvolto ed egoista presente, al ritorno da una passeggiata nei parchi di Roma, incontra suo padre morto il 26 luglio 1956 – il giorno in cui affondò l’Andrea Doria – all’età di 38 anni, sul pianerottolo di casa di Via Velletri e lo invita ad entrare (siamo a pagina 45) per raccontargli quello che è successo in casa in tutti questi lunghi anni. Il figlio oramai ha circa 60 anni, i capelli bianchi, mentre il padre li ha ancora neri. Il figlio ha una vita intensa alle spalle, è quasi anziano mentre il padre mostra tutta la sua baldanza giovanile, che come abbiamo detto è lo spirito di quegli anni, e non riguarda solo la famiglia dei nostri due protagonisti, ma la città di Roma e l’Italia intera.

vittorio veltroni nando martelliniNel romanzo si scopre che il padre lavora alla Rai anzi, benché sia così giovane, è già dirigente stimato, pieno di inventiva e coraggio, capace di «scegliere parole a colori, far provare a un intero Paese le emozioni che noi per primi vivevamo» (pagina 74). Conscio di queste qualità, il figlio nei lunghi anni di orfano, è andato collezionando tutte le testimonianze possibili, sia quelle pubbliche, le registrazioni della sua voce alla radio, gli oggetti più cari, i giornali che parlavano di lui – una ricerca presente anche nel libro di Calabresi, che cercava notizie sull’uccisione del padre, marinando la scuola e andando a leggere i vecchi giornali in biblioteca –, sia quelle private, le foto di famiglia, le lettere, le cartoline, i ricordi della madre, ecc. In verità, il figlio ha fatto di più, nel corso della sua vita ha raccolto testimonianze di ogni tipo ed ha invitato gli amici di lavoro del padre a mettere per iscritto i loro ricordi, in modo che egli possa «farsi una idea» di quell’uomo che se è stato carne della sua carne, tuttavia di quella carne non ha mai conosciuto (o non ricorda) il contatto, l’odore, la forza, il sapore di un bacio. E qui vale la pena notare che è lo stesso procedimento che opera Telemaco quando va prima dal saggio Nestore per avere notizie di Ulisse, il quale gli consiglia di recarsi a Sparta, dove Menelao gli racconta di Troia, del suo ritorno e delle vaghe notizie da lui avute da Proteo re del mare circa la (dolce) prigionia del padre nell’isola di Ogigia.

Nel romanzo l’incontro dura una notte, ricordi di famiglia e memorie pubbliche si snodano uno dopo l’altro, frammenti di vita e di storia maturano fra ricordi e documenti (il nonno Ciro venduto ai nazisti per 5000 mila lire e torturato a via Tasso)  poi all’alba la visione scompare, il colloquio finisce e la realtà prende il sopravvento sulla fantasia. Noi possiamo chiudere il romanzo e ci chiediamo se il protagonista abbia parlato davvero con il padre, con se stesso o con i nodi irrisolti dell’Italia, che appunto il padre ha raccontato dai microfoni della radio: il fascismo, la guerra, l’8 settembre, la resistenza, la ricostruzione, la costruzione della RAI, i primi passi della televisione, il rapporto con Mike Buongiorno.

Come ho detto, il romanzo oscilla fra racconto e testimonianze (in verità non sempre ben amalgamate), sembrandomi una radio di carta che trasmetta uno speciale intitolato Una persona che non dimenticherò mai, intervistando testimoni, facendo un reportage sui luoghi che lo videro passare, «i luoghi hanno un segno e persino un’anima» (pagina 153), ricreando l’ambientazione storica nel quale egli è vissuto. Questo tributo alla parola che opera l’autore Veltroni ci fa ricordare che la scrittura è voce impastata d’inchiostro, e che leggere è un modo silenzioso di ascoltare con gli occhi della mente, quei fantasmi fatti di carne che sono i personaggi del romanzo. Noi che siamo al di qua della radio di carta, cioè del libro, rimaniamo stupiti nel constatare quanto vuoto possa lasciare una vita troncata a metà. E di come un figlio possa seguire le orme del padre, non alla radio, ma in altri campi, anche se non lo ha mai conosciuto: «Papà aveva fatto la storia della radio e per questo era popolare, o almeno lo erano il suo nome, la sua voce e il suo modo di raccontare» (pagina 25).

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