Alberto Fraccacreta
L'elzeviro secco

Quelle parole gonfiate

Davvero è morto lo spirito della poesia? Davvero la sua "solennità" non può più nulla contro tutti quei libri che nascondono «vuoti di capienza»? Forse è arrivato il tempo di ricominciare

Lo confesso: non ho i soldi neanche per comprare una penna e scrivere «Non ho i soldi». Ma sono un critico di professione: la lettura è il mio pane. Pane di pietra. Ieri, ad esempio, mi è capitato di leggere alcune righe confortanti sul giornale, «trentaquattro li­cenziamenti al giorno». In cartellone al cinema Un marito per mia nonna. Senza con­siderare che a pranzo mangio cibi transgenici. Questo è, come si suol dire, lo spettro della modernità. Tuttavia, a costo di sembrare antistorico e obsoleto, parlerò di letteratura. Per la precisione: italiana. Al diavolo le lezioni di economia, mi piace diguazzare nelle spole del dimenticatoio.

La letteratura italiana è mirabile, forse la migliore fra tutte. Trovatemene un’altra che inizi in modo così magnifico: il Cantico delle Creature. I nostri albori nelle mani serafiche di un santo, del più bel santo.

Vorrei altresì riflettere su questo punto. Giambattista Vico, nella visione del significato ultimo e sapienziale del linguaggio poetico, precorre Martin Hei­degger di duecento anni. Cecco Angiolieri, nella costituzione di una poesia “maledetta”, pre­cede i simbolisti francesi di cinquecento anni. Il Burchiello, nella deriva del nonsense, anticipa surrealismo, futurismo e le altre avanguardie di quattrocento anni. Dati imbarazzanti per le letterature e le filosofie europee.

Detto questo, proprio ieri ero in libreria a sfogliazzare testi di letteratura contemporanea, scritti con un punto e via. Zac. Quel funereo gusto estetico mi mette improvvidamente di buonumore. All’apogeo del gaudio, entra un tizio, scorge una sua amica alla cassa e le dice: «Cosa compri? Poesia? Roba da vec­chi!». Frase da morti.

Giacché la si è introdotta, il senso della poesia credo consista nel formulare uno stato d’animo o una situazione che non po­trebbe essere stigmatizzata altrimenti. Tramite la formula,che solo la lirica in brevi tracce di scrittura (un rigo ogni cinquant’anni in media) riesce a dare, vi è lo “sgravio” dalla fatica dello stato d’animo o della situazione vis­suta. La que­stione dello stile è dunque, prima di tutto, una questione esistenziale. Cosa dire di più?

L’emozione di trasmettere al mondo ignaro una formula poetica in sé conchiusa e conclusa, ma che sarà distante, assai distante dall’essere compresa foss’anche da una sola (empatica) persona, è il valore obiettivo di qualsiasi esperienza lirica, al di fuori di ogni ragionevole bellez­za. Non può sopravvivere in questi tempi di editoria killer.

Obietterete: parli così perché sei un critico o sei un poeta? Non sono un fico secco. Dico di essere critico perché mi vergogno di tutte le altre mie attività: poesia, prosa, teatro. Sono immeritevole di esse. Gli amici, miei unici lettori, strizzando l’occhio, balbettano: «Sei bravo… ma un po’ troppo antiquato…». Non si può essere sempre pinzochero! In realtà sono molto povero d’immaginazione, per cui devo gonfiare le parole, come un pallone aerostatico. Funziona se contiene aria. A proposito di aerostatica, volevo citare una frase dai Demoni di Dostoevskij: «Siamo come due esseri astratti su un aerostato che si sono incontrati per dirsi la verità». Mi piaceva ricordarla.

Tornando alle parole gonfiate, l’aria nasconde un vuoto di capienza, l’impossibilità di essere normali. Al di là delle mie imperdonabili tare, comunque, ho una precisa idea di ciò che è poesia: la solennità. Su tale punto, perdonate la presunzione, penso di non sbagliarmi. Il minimalismo onestamente mi tedia, mi irrita, raggrinzisce la mente. Perdonatemi ancora, sono nato storto per questi tempi. La mia epoca preferita è il Duecento dei trovatori, la cui poetica di fondo rispecchia perfettamente i miei piccoli intenti: il vassallaggio d’amore.

mario luziNon aspiro ad essere antiquato, ma antico. Vorrei avere una voce potente che chiuda a zip la felpa dei secoli. È difficile, probabilmente non vi riuscirò mai, eppure biasimo i versi privi di qualsivoglia nerbo, sempliciotti invece di semplici, pretestuosi invece che umili. L’aspetto peggiore della superbia è la sua maschera di umiltà. Sono amante del verso evocativo, delle immagini in piani intrecciati, dell’inusuale come spettro. La lingua poetica non è l’elogio dell’usura. Mi appare piuttosto il crocevia di ciò che rinasce, dell’oro, della ricerca del veritativo. Il minimalismo è simile ad uno che sale su un palco e lo fa come nella vita. Esangue. Mentre chi sale sul palco dovrebbe essere uno stregone, uno sciamano tunguso, uno che conosce a memoria il respiro del pubblico e può bastonarlo o soccorrerlo quando desidera, perché tecnica e talento oramai si compenetrano nelle sue movenze articolate.

Il rischio di una tale visione, mi accorgo, è quello di suonare astrusi. Tale è il mio problema principale, poiché soffro di un disturbo autistico della creatività, ma a mia discolpa dirò: sono bersagliato dal potere delle immagini. Non vedo film: non mi servono. Passo la giornata a cincischiare al di fuori di me, e a difendermi a spada tratta dall’in­terno. Le visioni mi assediano contortamente e non ci posso far nulla. Sono vetrate gotiche, statue grigie e severe. Mi seguono in pieno giorno. Sono sempre dietro gli occhi. Giacciono immobili, indisturbate. Stanno là dietro e premono per uscire. Dico loro: «Pietà… pietà… non ho la dote naturale per modellarvi, farvi uscire dal non essere per diventare ammaestramento di vita… non riesco a darvi un’esistenza decente, autonoma, che appaghi la vostra tensione al propagarsi… abbiate pietà di un critico…».

Non c’è nulla da fare, vogliono staccarsi dal mio cervello angusto, aggirare le parti posteriori delle mie palpebre. Se potessi, scriverei una vetrata gotica. Se avessi senno, le parole della mia poesia sarebbero i mattoni di uno dei due torricini di Urbino. Non è possibile. Ahimè, proprio in questo momento storico, come ben lo vedo, tale pretesa diviene ancora più assurda!

Capite bene perché mi definisco critico. È una convenienza, l’unica via di scampo e non di scempio. Mi levo dai gangheri salutando tutti con un «grazie, arrivederci, ma non mi appartiene». Non sono più ferito nell’orgoglio, non pretendo di essere ascoltato. Sto lì, bel bello. Leggo, bevo latte e caffè, mi faccio un’opinione delle creazioni altrui e via. Sono libero. Libero anche dalle cricche di poesia che forse non brillano per nitidezza d’animo, mentre resto a guardare che il notebook mangi la mia vita con le sue memorie circuitali, e rimugino sul fatto che Kierkegaard, fratello spirituale, sia totalmente incomprensibile nella nostra epoca per via del suo essere così dolorosamente privo di schermi nella scrittura. Li ricrea allora con gli pseudonimi, per non girare nudo nella pagina. Così le visioni diminuiscono, si attenuano, si assottigliano. La retrospettiva del cervello comincia ad essere sgombra, – una tabula rasa.

A dirla tutta, però, mi sento indegno sia per la poesia che per la critica. Il mio sogno era di nascere sagrestano. Dietro le quinte del sacro. Nella cabina di regia della trascen­denza. Nondimeno, credo – certamente a torto – che la poesia sia l’arte più crudele con chi la opera; c’è a questo proposito una lirica molto significativa di Adam Zagajewski che dice

solo nella bellezza altrui
vi è consolazione, nella musica
altrui e in versi stranieri.

Quanta verità! È la condizione terribile/temibile del poeta. Mi è capitato di scrivere anche qualche canzone: è una grande ricompensa riascoltarla a sazietà, benché orrida. Quando invece scrivo una poesia, solitamente a seguito di essa sto male di beatitudine per tre mesi. La musica è liberazione dalle frecce acuminate di un agguato degli arcieri dei sensi. La poesia è il dissanguamento di quella liberazione.

Delle volte il poeta mi appare come un Padre del deserto. Con la differenza che quest’ultimo non deve ancora convertirsi e che il prezzo delle sue privazioni coincide con l’eterna letizia. Il poeta, a differenza dello stilita, deve passare due stagioni della vita nel deserto. La prima come poeta, la seconda come convertito.

Direte: sei un asino pessimista. Bene per l’asino, ma non accetto che mi si dia del pessimista: la grandezza del mestiere di poeta sta nella sua gioia di esistere e nella sua sete di verità che si traduce in un’esperienza totalizzante dell’altrove. Poche persone vi passano. I dolori sono più acuti, le gioie più piene. Il poeta è la cruna dell’ago, al di qua c’è l’uomo, al di là il Paradiso. Lui resta in mezzo, è il mezzo.

La poesia cerca una lingua che non è mai, sempre all’orizzonte del Non detto, lingua che invecchia troppo rapidamente, che ha bisogno di traduzione e mediazione sempre maggiore col passare dei giorni, mentre nella musica o nella pittura non è così. La poesia è mediazione intimamente legata al tempo, mai immediatezza. Se il poeta è compreso nell’immediato (eccetto casi rarissimi), forse non è un bravo poeta, ma un bravo (e sedicente) paroliere.

Cosa dite? La letteratura italiana? Non ho dimenticato i propositi iniziali. Per parte mia, un autore tra i più notevoli è senz’altro Oliviero da Robegano, in arte Auliver. Il suo Sirventese perviene alle vette del sublime nella misura in cui si dimostra disilluso, asecolare, guitto: lontano da qualsiasi corrispettivo locale e non. Auliver, se ci pensate, è aguzzo anche nel nome. Considerate i suoi contemporanei: Folgore da San Gimignano, Ciacco dell’Anguillara, Meo Abbracciavacca, Sordello da Goito, Cenne de la Chitarra. Poesie i loro stessi nomi, beninteso. Però poi: Auliver, la nota che stona. Un precursore della dissonanza. Un pionere del posto sbagliato. Mi fa pensare che il gusto dell’orrido e del truculento di Accio e Pacuvio sia ben vivido in un’epoca di bravi mugnaî.

Auliver asserisce, in soldoni, che l’amore sia un gran imbroglio. Se pensate che Leopardi dirà lo stesso, avrete coscienza della sua statura. Peccato scrivesse in dialetto lombardo, lingua nobilissima ma che odora di ceci e polenta.

Auliver era un uomo solo, ma buono. Invaghito dei fringuelli che cinguettavano fuori dalla sua finestrella in Brianza, si inquietava se il suo cielo fosse oscurato da un nimbo o da una poiana. Auliver ci insegna a persistere nella diversità. È la voce fuori dal coro. Non c’è nulla di più poetico, oserei dire di più equo dell’essere diversi, di creare differenza contro il cristallo opaco dell’omologazione. Lo scopo pedagogico supera di gran lunga le arrampicate estetiche. Caro Auliver, detto fra noi, l’amore esiste però.

Tuttavia il mio maestro rimane, come per Mario Luzi, il pittore senese Simone Martini. È da lui che traggo le grandi vetrate gotiche della mente. Dai suoi ori rimbomba una luce sfrigolante tra le sinapsi. Dai suoi polittici puntuti vien fuori l’af­fila­tezza delle lastre di ottone: le parole.

L’oro, come colore, è la ricchezza della povertà. È un’apertura spaventosa sulle delizie d’oltremondo. Credo di avervi annoiato abbastanza. Mi dilungo e mi infervoro quando si tratta di perorare la causa delle lettere. Capisco che non è più il caso. La grande abulia delle immagini – perché ne siamo bombardati in continuazione, e la gente non si sforza più di crearne – rende il poeta (o presunto tale) un gaudente solitario. Non rivendicavo un tempo che si dicesse «che bravo poeta», rivendicavo semplicemente la necessità di «essere poeta», un creatore di figurazioni e suggestioni. Adesso non mi interessa.

Per concludere. Si è fatto molto tardi. Le nubi gonfiano il cielo di Palazzo Veterani. La furia degli storni attorno ai fregi del duomo annuncia l’inesorabile, silente apocalisse della sera. Un merlo saltella a singhiozzo con estrema maestria a due passi da me. Cerca un chicco nella mia mano. Dovessi dare una definizione di poesia direi che essa è precisione assoluta, millimetrica; il poeta è un osservatore fuori dal comune, non una persona migliore delle altre, ma uno che ha la vista a tutto tondo, con la quale perfora le cose; il poeta sa sintetizzare uno spazio enorme co­gliendo quello che le persone normali non colgono, fin nei particolari. Per questo è capace di fare della propria esperienza (così personale) un luogo condiviso da tutti. Questo luogo non esiste più.

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