Raoul Precht
Periscopio (globale)

La sfida del dolore

Non è possibile raccontare il Novecento senza raccogliere la sfida dei campi di sterminio: tra senso di morte e fine della storia. Come dimostra Filippo Tuena ne “Le variazioni Reinach”, appena ristampato

Ci sono (ancora) scrittori per i quali la scrittura è un corpo a corpo con la realtà e che l’affrontano con l’acribia della ricerca e il desiderio di capire. Ne abbiamo almeno uno anche in Italia, e i suoi libri non sono mai banali, mai scontati. Mi riferisco a Filippo Tuena, di cui qualche mese fa è uscito in una nuova edizione un romanzo che ha dieci anni, ma non li dimostra affatto, Le variazioni Reinach (Beat, 382 pagine, 13,80 euro).

A volerla riassumere in poche parole, è la storia documentatissima di una ricca famiglia di banchieri ebrei, i Reinach–Camondo, vittima delle persecuzioni razziali nella Francia degli anni ’40. Tuena ricostruisce vite e vicende individuali e riesce perfino a ritrovare, ottant’anni dopo, il manoscritto di una sonata per violino e pianoforte scritta dal suo protagonista, Léon Reinach, di cui oggi è disponibile, grazie anche al suo eccezionale impegno di ricercatore, una nuova esecuzione.

filippo tuena le variazioni reinachPer la sua oggettività e l’impegno a rifuggire ogni tentazione di sensiblerie e compatimento, Le variazioni Reinach è uno di quei pochi libri che, come scriveva Kafka in una famosa e citatissima lettera all’amico Oskar Pollack, dovrebbero agire come un’ascia che spezza il mare ghiacciato dentro di noi. Di questo mare ghiacciato Tuena sembra del resto perfettamente consapevole quando, nell’apprestarsi a descrivere il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, confessa a se stesso che il suo potrà anche essere un romanzo bellissimo, ma che, se non sfiora il campo della morte, lui non avrà scritto il libro che ogni autore dovrebbe scrivere. Non possiamo non chiederci, a questo punto, rifacendo il verso ad Adorno e alla Scuola di Francoforte, se oggi più che mai non si debba scrivere di Auschwitz, e se il campo di sterminio non rappresenti ancora la massima sfida per uno scrittore.

Ma c’è anche un altro riferimento a un universo che potremmo definire kafkiano. I prigionieri del campo di transito di Drancy, dove i Reinach vengono internati inizialmente, non si sentono colpevoli, ma ritengono che si tratti di un errore, di un malinteso. Se solo si potessero verificare i documenti e le biografie di ciascuno di loro, immaginano, ci si accorgerebbe del marchiano errore burocratico, e sarebbero subito liberati. Mutatis mutandis sono gli stessi pensieri, ricorda opportunamente Tuena, che si agitavano nella mente del personaggio K. a Praga qualche decennio prima. Quest’atteggiamento, che accomunava moltissimi ebrei francesi, ha molto a che fare con la convinzione radicata in ciascuno di noi – una convinzione né ebraica, né cattolica, ma forse semplicemente monoteista – di essere in fondo colpevoli, di aver fatto qualcosa di male, di cui ignoriamo la portata ma di cui presto o tardi dovremo rispondere alla società o a Dio. Ma al senso di colpa si aggiunge l’errore di valutazione compiuto soprattutto dagli ebrei più ricchi, noti e influenti, sempre convinti che sarebbero stati risparmiati in virtù del loro patrimonio e di un passato glorioso. Molti avevano ottenuto decorazioni militari o si erano distinti per vari servizi resi alle patrie d’appartenenza (compresa, va ricordato, la Germania, ed ebrei erano molti soldati tedeschi morti nella guerra del ’15-’18). Lo si avverte chiaramente nel tono e nelle parole delle lettere, riportate da Tuena, che Léon Reinach scrive nel tentativo di salvare almeno in parte la collezione d’arte della famiglia. Prima ancora che ebrei, i Reinach e i Camondo si sentivano francesi, ma come tali non erano evidentemente percepiti dai loro compatrioti, per i quali restavano sostanzialmente degli stranieri. Se prendiamo quale ulteriore testimonianza romanzi come Dora Bruder di Patrick Modiano o La cliente di Pierre Assouline, la conclusione è che gli ebrei potevano pur essersi integrati da generazioni, ma nella percezione generale restavano dei corpi estranei alla società. Il che, peraltro, lascia tracce evidenti nel sentimento che hanno di se stessi, in quella che Assouline definisce la “ricerca continua della sicurezza assoluta”. Léon, come molti altri ebrei dello stesso ambiente, non prende atto della mostruosità di quanto sta accadendo, perché in fondo è questo l’unico modo possibile per conservare la propria identità, il prodotto dello sforzo fatto da diverse generazioni di Reinach e Camondo prima di lui. L’idea stessa di fuggire, di tradire il paese che pure lo stava tradendo, gli sembra troppo dura e difficile, ed è anche per questo, probabilmente, che Léon si decide a organizzare un simulacro di fuga, peraltro votata allo scacco, solo diciotto mesi dopo l’ingresso trionfale delle truppe tedesche a Parigi.

olocaustoMa torniamo all’atteggiamento degli altri, dei francesi. Senza disturbare Goldhagen e le sue tesi sulla sostanziale collaborazione del popolo tedesco con il nazismo, va ricordato che già alla fine degli anni ’80 uno dei lavori più significativi dello storico Raul Hilberg era intitolato non a caso Carnefici, vittime, spettatori. Ricordo anche le intensissime pagine di Ernst Wiechert in Der Totenwald (La selva dei morti) sul fatto che quanti vivevano nei pressi di Buchenwald erano a conoscenza di tutto e non facevano nulla, salvo, in alcuni casi, collaborare con i nazisti o sostenerli. In una scena del romanzo di Tuena dei bambini polacchi, scorgendo il treno dei deportati, fanno loro segno con la mano che saranno sgozzati. La stessa scena si ritrova, con una minima variante – vi si parla di adulti, non di bambini – nel libro di Hilberg, che deve aver attinto a fonti analoghe. Poi c’erano naturalmente i veri e propri collaborazionisti, la cui mentalità era talmente radicata da estendersi in qualche caso perfino alle vittime. Un episodio fra tutti, citato da Tuena: quello dell’internata che a Drancy scriveva al suo carnefice per denunciare i suoi compagni, donne e uomini che di notte si ritrovavano nei locali vuoti a conversare per superare la paura.

Un altro aspetto importante del romanzo è il tema della paternità. Quando scopre che il numero tatuato sul braccio di Bertrand, il figlio di Léon, è inferiore a quello del padre, Tuena immagina che Bertrand si sia messo volutamente davanti al padre per proteggerlo. Poi, dopo aver parlato con un esperto dei campi di concentramento, scopre invece che è vero il contrario: al momento della numerazione e del tatuaggio padri e figli erano sempre assieme, ma il padre si metteva dietro il figlio, perché così poteva mettergli un braccio sulle spalle, cercare, in qualche modo, di proteggerlo.

Tuena ci ricorda che l’universo concentrazionario è contraddistinto dall’assenza del Tempo, o dal suo capovolgimento. In un universo in cui il Tempo non esiste i figli possono ben morire prima dei genitori, e ad Auschwitz è significativo che Fanny e Bertrand, i figli, siano i primi a morire. Non è forse questa la fine, non solo della storia di questa famiglia, ma della Storia tout court?

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