Alberto Fraccacreta
L'elzeviro secco

Tucidide e la balena

Dopo il caso Mondadori/Rizzoli sono molte le domande che si impongono a proposito della crisi dell'editoria. E tutte hanno a che fare con la politica culturale di questo Paese

Diceva Tucidide nell’incipit a La guerra del Peloponneso che, quando ci sono due imperi che raggiungono il culmine, prima o poi devono scontrarsi e l’uno fagocita l’altro. A cagione del medesimo principio, da pochi giorni, la balena Mondadori ha divorato lo squalotto Rizzoli e attorno, a nuotazzare nel stesse ma cangianti (ergo parmenidee) acque, sono rimasti una miriade di organismi planctonici, alcuni anche pregiati (Adelphi), nella pericolosa onda d’urto che signora balena, un giorno, spalanchi le sue immense fauci e inghiotta senza troppo mastricchio, in un tripudio di sapori, anche le tipografie di provincia. Al di là dell’urgente questione etica – è lecito che circa metà del mercato librario sia in mano ad un solo editore? –, c’è da chiedersi (come Nicola Fano ha giustamente rilevato nel suo intervento) quale politica abbia portato ad uno status quo del genere, dove il brivido è di casa e il noir, dismettendo la maschera di genere letterario, sconfina dalla normale immaginazione.

Via la carrellata di domande: le scelte editoriali sono state davvero azzeccate? Perché non educare il popolo piuttosto che abbassare il tenore culturale dei cataloghi? Perché gli eroi dei romanzetti che da decenni si pubblicano nell’italico suolo hanno la stessa consistenza psicologica di Dinamite Bla e della sua cuoca Firmina? Perché le storie e gli intrecci – studiati a tavolino non si capisce quanto tempo e con quali mezzi – affidano la propria architettura narrativa all’identica Ringkomposition che potrebbe presentare la saga di Fratel Coniglietto e Compare Orso? Perché la poesia, che come al solito ci rimette, benché sia l’arte più nobile e sensata del mondo, è deformata da professionisti dell’accapo che intasano i già esigui spazi? Libri che non saranno mai più ristampati in saecula saeculorum, ché se qualcuno osa farlo gli alberi indicono sciopero vegetale, le foglie invocano clorofilliana pietà.Non piango per l’idealismo estetico infangato, ormai sono scevro di tali amenità: piango per le piante distrutte, l’Amazzonia intera timbrata da sciocchezzuole: tutta quella carta al macero nel nome della “vendita”, del “prodotto”, del “profitto”. Parole raggelanti che, delle volte, sono condite con salsa unica e spiattellate nell’irripetibile aforisma che avrebbe raccapricciato persino il marchese De Sade: «devi vendere il prodotto se vuoi trarre profitto». L’unico best-seller di mia conoscenza che, al vero, merita menzione è Qui Quo Qua da colorare.

E poi gli Apostati de Il Romanzetto di successo imbastiscono il povero pubblico, della cui microcefalia i businessmen raccontano meraviglie, con frasi del tipo:

Il Romanzetto di successo deve essere semplice, con una storia forte, in modo che tocchi gli interessi della gente.

Vorrei suggerire, in una consulenza psicoeditoriale, a tali Apostati che da decenni frequento librerie e posso asserire con certezza di non aver visto mai nessuno comprare siffatti romanzetti. Racconto qui a mo’ di inchiesta, ab imo pectore, la scena tipica di una libreria dell’entroterra marchigiano: ore 17,30, tre persone: una ragazza che domanda alla cassa testi universitari; un ragazzo che sbircia mezz’ora e infine non compra un tanghero di nulla; un vegliardo che chiede le Aithiopikà di Carone di Lampsaco e si sente rispondere «Spiacente, è fuori commercio». Dal Medioevo.

Le case editrici di oggi sono, a loro modo, fichtiane: pongono degli ostacoli per superarli. “Riusciremo a vendere tremila copie de Il mio trisavolo cerca colf?” e tutti: “Sìììì…”. L’idea pura e scarna ce l’ha un autore in cerca di Strega e gli editor, scrittori smagati, si mettono comodin comodoni a scomporla e imbellettarla come possono. Il quesito fondamentale è proprio questo: la tattica di vendita ha seguito? Non credo, e la breve indagine nelle librerie lo dimostra. Nessuno legge niente. In Italia non si leggono nemmeno le ricette di Nonna Belarda. La verità è che non c’è in commercio davvero nulla di interessante.  D’altra parte se esistono questi fagocitamenti continui significa che l’editoria è in crisi, e la sua crisi ha origini culturali, oltre che socioeconomiche: è la degenerazione della logica del profitto. D’accordo che un libro deve fare anche soldi, ma in ciò non deve e non può risiedere il motivo della sua genesi. È questa la perversione da combattere, perché intacca la dignità stessa del libro, la radice medesima da cui sgorga l’idea di libro. Scrive Kafka in una lettera a Oskar Pollak: «Bisognerebbe leggere, credo, soltanto i libri che mordono e pungono. Se il libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve leggerlo? Abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci fa molto male, come la morte di uno che era più caro di noi stessi, come se fossimo respinti dai boschi, via da tutti gli uomini, come un suicidio, un libro deve essere la scure per il mare gelato dentro di noi».

Un’ultima cosa mi preme da dire: Dostoevskij è in libreria dall’Ottocento. E continua a vendere – certamente molto di più dei romanzetti. Ha scritto di suo pugno. E non mi pare sia così sempliciotto.

(Continua)

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