Danilo Maestosi
Al Palaexpo di Roma

Spettacolo Novecento

Tre mostre (i capolavori dell'impressionismo raccolti dal collezionista americano Duncan Philiphs, la genesi del design italiano e i dogmi del realismo socialista) ricostruiscono il percorso accidentato della ricerca artistica della prima metà del secolo scorso

Il Palaexpo di via Nazionale a Roma esce dal letargo in cui era precipitato con un trittico di mostre autunnali di garantito richiamo. Il futuro del più importante spazio espositivo pubblico della Capitale è ancora avvolto nelle nebbie: resta la gestione commissariale, scattata dopo l’uscita di scena del presidente Franco Bernabè – che si è però subito riaccasato ottenendo dal ministro Franceschini la guida della Quadriennale – e le dimissioni del consiglio di amministrazione; i fondi, ragione prima di questo stallo, continuano a scarseggiare, la caduta della giunta comunale rende quanto mai improbabili soluzioni a breve.

In queste condizioni d’incertezza è quasi un miracolo aver varato questo cartellone autunnale che strizza l’occhio al grande pubblico, che ripaga con opere di sicura qualità, associando nella stessa ribalta: i capolavori di un grande ed eclettico collezionista americano, tra i primi a portare negli Usa i linguaggi dell’Impressionismo e degli altri movimenti emersi nella Parigi primo Novecento; la produzione dal 1917 al 1940 della pittura russa nata nel solco del realismo socialista, e infine i gioielli del design italiano dal liberty alla seconda guerra mondiale.

palaexpo1A fermarsi ai titoli, è una ricetta che sa di minestra riscaldata. Di già visto o di troppo visto. Inflazionata la calamita degli impressionisti: una decine di mostre giunte o prossime al taglio del nastro in tutt’Italia, altre due appena inaugurate a Roma, una al Vittoriano sulle raccolte d’epoca del museo d’Orsay, un’altra al Chiostro del Bramante riservata a un pittore, James Tissot, amico e compagno di strada ma non sodale di Manet e Degas, che fece fortuna in Inghilterra portando nella Londra vittoriana gli echi maliziosi della Parigi Belle Époque. Già esplorato di recente proprio dal Palaexpo il serbatoio della pittura d’oltre cortina con sontuoso ripasso dell’arte di regime e una antologica riservata ad un mastro di talento border line come Alexandr Dejneka.

Ami che stuzzicano la coazione a ripetere di una grande folla di non addetti. Una platea che cerca e trova rassicurazione e spettacolo in questa fase dell’arte moderna in cui sa ormai orizzontarsi e muoversi senza complessi. Ma sono segnali di una politica espositiva che punta più alla cassetta che alla ricerca e alla divulgazione di stimoli meno scontati.

palaexpo3Eppure nonostante questi punti di debolezza il sapiente filo di regia, che qui al Palaexpo cuce insieme le tre mostre come capitoli di una stessa storia riletta da angolazioni diverse, conduce il visitatore oltre le secche di una prevedibile routine e gli regala un affresco d’insieme della prima metà del Novecento se non inedito tutt’altro che banale. Perché sa cogliere quei nessi di continuità, quella fitta rete di scambi, esperienze condivise, influssi reciproci, che sono in ogni latitudine la vera linfa vitale che alimenta il tessuto della produzione artistica. Sconfiggendo la tendenza ormai dominante nella galassia del contemporaneo a fissare invece l’attenzione critica solo sulle punte di trasgressione, le eccellenze, gli scarti radicali di gusto.

A ispirare questa rilettura in controtendenza contribuisce la singolare composizione della collezione che il colto mecenate americano Duncan Philiphs (1886-1966) riuscì a costruire e poi ad esporre in una villa museo di Washington, da cui proviene il prezioso campionario di opere che la Fondazione a lui intitolata porta ora in trasferta. Con la capacità, davvero unica in uno studente di Belle arti del suo paese e del suo tempo, di sapere individuare i tasselli che come tracce profetiche legano in un unico grande mosaico le ricerche espressive dei maestri del passato e della tradizione alle svolte degli autori più moderni. Senza preclusioni di stili, codici, linguaggi.

Una vista lunga che gli consentì di accomunare e mettere in mostra in una stessa sala riservata ai realisti dell’Ottocento americano, come un siparietto di precursori, capolavori di maestri di altre epoche e altri contesti. Contrappunti che, parzialmente riproposti qui a Roma, possono sorprendere a prima vista il visitatore ma si rivelano tutt’altro che stridenti, come chiavi di rilettura preziose della pittura che verrà, sgranata nel resto del percorso.

El Greco - Il pentimento di San PietroUno spettacolo illuminante quelle due tele sulla penitenza di San Pietro, attanagliato dal rimorso dall’aver tradito per ben tre volte Cristo, il suo maestro, firmate nel Seicento da El Greco, un pioniere dell’espressionismo, perché no?, e ad inizio Ottocento da Goya, visionario indagatore dell’orrore, dell’inconscio e dell’ombra. E quanta pittura en plein air dovrebbe pagar dazio a quella splendida versione di Bagnante cesellata da Ingres, il corpo nudo poggiato su una roccia, altre figure che si intravedono sullo sfondo campestre? E che occhio raffinato rivela Duncan Philips nello scegliere nella sua vetrina di precursori quel paesaggio di colline di Courbet, che anticipa di mezzo secolo la traduzione delle vedute in volumi e assi prospettici di Cezanne.

Non solo impressionisti dunque in questa antologia, anche se a rappresentarli ci sono tutte le firme che contano: Manet, Pisarro, Sisley, Monet. C’è posto anche per i maestri che ne prolungano in altre direzioni la lezione (come Bonnard); che ne esasperano il segno e la costruzione dello spazio (come Soutine e Van Gogh) o che ne stravolgono i principi (come Matisse e Dufy). Poi, c’è posto per i cubisti, da Picasso a Braque. E anche per le composizioni astratte di Kandinsky. Via via in un costante sforzo di aggiornamento che include anche l’action painting, di cui Philiphs assiste all’avvento da testimone diretto e ne individua le punte più alte in Pollock e in Mark Rothko.

palaexpo4Ancora più riuscita l’operazione della seconda mostra, «Una dolce vita?» che con sintetiche ma precise carrellate esplora l’universo del design italiano e il suo costante intreccio con le correnti e i movimenti della pittura e altre arti tradizionali. Il punto di partenza con il liberty, versione di casa dell’art nouveau, nella grande esposizione delle arti applicate che si tiene a Torino nel 1902, il punto d’arrivo nel 1940 con il razionalismo astratto che poi segnerà nel dopoguerra il boom del made in Italy. Quadri, mobili e soprammobili esposti in vari siparietti affiancati, che attraversano le tappe d’evoluzione dei nostri più grandi autori, confermando lo stretto contatto che lega maestri dell’arte da cavalletto e creativi della produzione d’arredo. Tra le tante chicche, la ricostruzione di una stanza di Casa Balla, pensata e disegnata in un verde squillante dal padre fondatore del Futurismo. E una vetrina di ceramiche cariche di ridondanti bagliori barocchi che documentano la fase d’avvio di un artista come Giò Ponti, che poi diverrà uno dei più acclamati designer del razionalismo italiano.

L’ultimo capitolo, quello sull’arte sovietica, è il più debole, anche se la messinscena è ben organizzata in una scansione di capitoli che sviluppano il leit motiv dei mezzi di trasporto nell’Urss post rivoluzionaria. Treni, automobili, aerei. E infine le conquiste dell’astronautica sovietica Anni Sessanta. È il racconto di una società chiusa e in forte ritardo che gli artisti dell’epoca si affannano invano a trasformare in epopea o a tradurre in cronache di vita quotidiana. La maggioranza dei quadri ha lo spessore ingenuo e ingessato delle cartoline illustrate. Ma è stato il nostro Novecento anche questo.

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