Alberto Fraccacreta
L'elzeviro secco

Il plancton di Tacito

In tempi di rincorsa affannata al successo, soprattutto economico (anche se drogato), qualcuno continua a parlare alle coscienze. Come Raffaelli editore con la collana "Scintille"

Dostoevskij è in libreria dall’Ottocento, si diceva. Or bene: un libro nasce dall’urgenza di stigmatizzare una sensazione, una presa d’atto. Il fine del libro è la bellezza, vista nei suoi contorni tersi, svincolata dalle situazioni o dalle ideologie. E Dostoevskij ci è perfettamente riuscito; bisogna armarsi soltanto della pazienza di leggerlo (cosa non da poco). La logica del profitto non può coincidere con la logica naturale del libro: questo ha il suo punctum saliens nel dimostrarsi un propulsore dell’interiorità, che cresce lungo i viadotti spirituali della ricerca e dell’ardore. Chi non paga pedaggio, non vi entra. Le strade sono opposte, disarticolate; è come invitare un agnello al gran ballo dei lupi mannari. Ci andrà?

Il libro è lo scafandro da palombaro della nostra anima, ciò che ci permette di incedere con coraggio nell’abisso. In virtù di esso possiamo camminare lungo i crateri del profondo, nella madreperla scorticata, tanto da ribaltarne la limpidezza, in una radura di calma. Possiamo essere altrove, in altro tempo. Dissolverci di piena identità.

Oggi il libro è un manufatto che si tiene simpaticamente fra le mani odoranti d’aglio e carota, o lo si espone nella libreria di casa per lasciar intendere ai compagni di merenda com’è brava la mamma nel preparare la zuppa e il pan bagnato in un’unica scodella. Il libro è motivo di ostentata gaiezza – senza che nessuno si preoccupi di rivendicare i diritti paritari della tristezza; è il passepartout per il passatempo. Il «vieni presto dolce domani» ad libitum, senza uno scopo, perché il giorno deve scivolare di dosso nelle ore di noia come pioggia sull’impermeabile, fino a quando la morte non bussa alla porta con le stesse nocche della Quinta di Beethoven.

Il libro di oggi si traveste da feticcio della cultura delle immagini (la cultura più pericolosa mai esistita, perché distrugge la fantasia), mentre ne resta meschinamente al servizio per catalizzare l’attenzione sul vuoto imposto; che cos’è un’immagine spiattellata tuo malgrado, se non un impoverimento? Sinché la copertina e il titolo intrigano (questa smania di provare emozioni discordanti e fulminee, input da I bracconieri nella notte), il libro è lodevole. Dopo qualche minuto, com’è chiaro, si trasforma nella biunivoca zeppa per tavoli traballanti, il miglior amico delle tigri di Mompracen, il soprammobile che tutte le nonne hanno sempre desiderato, la miniera omozigote entro cui saccheggiare rêveries al nobile fine di produrre soap opera, – al limite un oggetto contundente da scagliare in viso ai cabotieri nelle selvagge corse atlantiche a «quel pesce è mio, l’ho visto prima io». E via discorrendo. Tutto dunque – anche le cose più bizzarre, meno che qualcosa di serio.

I personaggi famosi sono soliti pubblicare il loro libro, per il quale sono state impunemente falciate foreste amazzoniche, finché nuovo senso di dissipazione, Abgrund, dépense, evoè evoè non colgano la bacchica frenesia dell’editore che grida inesausto «ma sì, produciamone un altro, facciamo un secondo libro». Non lo comprerà nemmeno la prozia bibliomane del personaggio famoso, perché viene dal cervello del tavolino e ad un tavolino è destinato.

Ma il libro è un’esigenza.

Nell’Agricola lo storico latino Tacito, parlando del periodo di relativa pace successiva all’imperatore/tiranno Domiziano, causa effettiva della morte del suocero, asserisce: «Nunc demum redit animus», finalmente si ritorna a respirare. Noi non viviamo una tirannide fatta di costrizioni al suicidio, omicidi indotti, silenzio stampa. Ma ne viviamo una differente, comunque atroce: coscienza assopita, altra gente detentrice della nostra libertà di espressione. Alle nostre spalle c’è una congiura silente. Abbiamo un pugnale nel cranio. Quando torneremo a respirare? Chi potremmo definire lo scrittore dei nostri disarmi?

Per ora l’editoria è connivente e anche vittima della mitica “corsa al nichelino” e della sua forma narcisistica, in un ribaltamento spiazzante del Qohèlet. Evviva, evviva la vanità. C’è un circolo vizioso che soverchia gli indirizzi di pensiero: non si legge, mancano i soldi, che si fa? Pollici rigirati e ore di catalessi? Ci salveranno i filologi, benedettini di un’epoca senza letteratura?

In mezzo al magma i piccoli editori assurgono a sentinelle della dignità nei Campi Catalaunici della nostra immaginazione. Un esempio: la collana Scintille di Raffaelli editore, riesumata dall’anamnesi di opere scomparse, dimenticate. I titoli di punta dell’ultimo anno sono: Le imprese di Alessandro il Grande di Michail Kuzmin, perla assoluta della riscrittura storica, che ricorda la prosa densa ed ellittica degli Scriptores Historiae Augustae; La storia di Gesù redatta dallo storico musulmano Tabari, documento prezioso – soprattutto oggi – per comprendere il punto di vista islamico; La ballata sull’amore e sulla morte dell’alfiere Cristoforo Rilke, poema di incantevole verità e morbidezza.

Queste operazioni riportano fugacemente laddove era ancora possibile sperare in quell’autodidattica dell’educazione culturale tanto predicata da Edgar Morin, che dà memoria e ritrovato vigore alla maieutica socratica, «rara felicità di un’epoca – ci suggerisce ancora Tacito, nel prologo delle Historiae – in cui è lecito dire ciò che si sente, e sentire ciò che si vuole».

(Continua)

Facebooktwitterlinkedin