Nicola Bottiglieri
La tragedia dei migranti

Aylan e Dostoevskij

L'immagine del piccolo Aylan Kurdi steso sul limitare del Mediterraneo invita a ripensare ai grandi miti che stanno alla base delle nostra identità. Perché non è tempo di contraddirli

«E mentre camminava per le strade e vedeva in ogni volto i segni di una fatica inutile, o alzava gli occhi verso i tetti delle case, su al cielo, per capire se c’era un senso, egli pareva trovarlo, e si rasserenava. Ma solo a una domanda, che lo investiva a ondate regolari con affanno, il principe Mishkin non sapeva rispondere: perché, Signore, i bambini muoiono?». Queste parole che Dostoevskij scrive nel romanzo L’idiota e mette in bocca al principe Mishkin, possono essere le nostre. Ma, come lui, non sappiamo dare una risposta, o meglio a questa domanda diamo mille risposte, ognuna di essa inutile e vergognosa. Ma se Mishkin se lo chiedeva per capire la morte “naturale” di un bambino, cosa possiamo rispondere noi, quando sappiamo che quella morte è dovuta agli effetti di una guerra, alla cupidigia dei trafficanti di morte, all’amore spaventato dei genitori?

In altre pagine del diario, Dostoevskij incalza ancora con domande terribili: «A un bambino si può dire tutto, tutto. Mi ha sempre sconcertato il pensiero di quanto poco i grandi conoscano i piccoli, persino padri e madri i loro figli. Ai bambini non bisogna nascondere niente col pretesto che sono piccoli e che per loro è troppo presto per sapere. Che idea triste e infelice! E come si rendono ben conto i bambini che i genitori li considerano troppo piccoli e non in grado di capire, mentre invece capiscono tutto. I grandi non sanno che un bambino può dare consigli estremamente importanti anche nelle questioni più difficili. Oh Dio! Eppure quando uno di questi teneri uccellini ti guarda fiducioso e contento, ti vergogni di ingannarlo». Queste frasi fanno venire in mente altre domande. Come hanno spiegato ad Aylan Kurdi di tre anni e a suo fratello più grande Galip, anche egli morto, le ragioni della guerra? Cosa hanno detto il siriano Abdullay Kurdi e sua moglie (anche essa perita nel mare) ai due ragazzini per spiegare loro che dovevano abbandonare la loro casa a Kobane, al confine fra Siria e Turchia, e affrontare di notte su un gommone il viaggio verso l’isola di Kos in Grecia? E cosa ha inventato il padre per non farli piangere mentre di notte salivano sul gommone affollato che proprio per questo si è rovesciato? Che andavano a fare una gita? Che era tutto un gioco? E cosa diceva mentre affondavano insieme ad altri otto siriani anche essi affogati? Quando, caduto in acqua, Abdullay si è reso conto che i tubolari si era sgonfiati e l’acqua lo stava ingoiando, cosa ha detto? Ma cosa gli ha detto il mare, mentre spingeva Aylan, onda dopo onda, sulla spiaggia turca di Bodrum al bambino già morto annegato?

migrantiGià, cosa dice il mare a questi morti annegati? Che è stanco di ingoiare tanta carne piovuta dal nulla? Che è stupito di quanto siano ingenui gli uomini a non conoscere la sua terribile forza? L’acqua del mare non conosce parole, nelle sue viscere profonde non c’è vocabolario, essa ingoia, mastica e fa calare sulle sue prede il silenzio della morte. A volte, però, anche essa diventa pietosa e spinge i cadaveri verso riva. L’onda arriva sulla sabbia, questa apre i pori della pelle e mentre fa filtrare l’acqua salmastra nei pori del suo ruvido corpo, lascia intatta i cadaveri. I quali cominciano a parlare con parole ingarbugliate formate dai colori dei vestiti, dai lacci delle scarpe, dai gesti scomposti delle gambe e delle braccia, dagli occhi chiusi e dal ventre gonfio. Quando poi, dopo qualche ora o qualche giorno, le loro parole diventano assordanti, uomini più silenziosi di loro li raccolgono e li seppelliscono in luoghi remoti, dove possono continuare a parlare fra loro senza che oramai nessuno possa più ascoltarli.

Il bambino Aylan Kurdi, attraverso le foto e il filmato che tutti abbiamo visto, parla con il colore dei vestiti, con le scarpette ai piedi, con il corpo oramai del colore della cera. Però a guardare bene, ha un orecchio poggiato per terra, gli occhi chiusi ad ascoltare quello che gli dicono la sabbia e le onde. Le quali gli raccontano delle sirene, dei delfini che salvano gli uomini che stanno per annegare, della guerra di Troia combattuta in Turchia, della ninfa Europa che visse proprio in quella parte del mondo.

Europa era figlia di Agenore, re di Tiro. Il grande Zeus, padre di tutti gli dei, se ne innamorò pazzamente, vedendola insieme ad altre ragazze raccogliere dei fiori nei pressi della spiaggia. Zeus allora ordinò a Ermes, il dio che aveva le ali ai piedi, di guidare i buoi del padre di Europa verso la spiaggia. Quindi prese le sembianze di un toro bianco, le si avvicinò e si stese ai suoi piedi. Europa salì sul dorso del toro, e questi la portò attraverso il mare fino all’isola di Creta, dove divenne regina e madre di tutti noi europei. A ricordo del suo amore Zeus collocò quel toro sacro nel cielo, che oggi forma la costellazione del Toro.

Ora, nei lunghi giorni dell’eternità, anche Aylan Kurdi potrà salire sulla groppa del toro celeste e cercare la ninfa Europa per chiederle dove mai si sia nascosta quella notte. E perché mai il grande Zeus non abbia mandato un toro a salvarlo dalle nere acque del mare, lui, la sua famiglia ed i compagni di viaggio, perché anche lui e la sua famiglia discendono dalla sua stirpe, quella stirpe che accomuna tutti gli uomini che dicono di essere europei.

Forse la ninfa Europa piangerà per la vergogna, forse dirà che era intenta ad accudire suo figlio il Minotauro, forse dirà parole rabbiose sul mondo e sugli uomini. Noi, come racconta la foto, metteremo le nostre orecchie nell’acqua del mare per ascoltare ancora una volta cosa ci dicono le onde.

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