Francesco Arturo Saponaro
Moderno teatro musicale all’Opera di Roma

A prova di audience

Ottima accoglienza italiana per “I was Looking at the Ceiling and Then I Saw the Sky” nella messa in scena di Giorgio Barberio Corsetti. Una miscela di musica popolare ben calibrata che incontra i gusti di un pubblico fatto anche di giovani

I was Looking at the Ceiling and Then I Saw the Sky (Stavo guardando il soffitto e all’improvviso ho visto il cielo). È il titolo della produzione di teatro musicale – moderna, e molto applaudita – messa in scena in prima italiana dal Teatro dell’Opera, in Roma. Il lavoro esordì nel maggio 1995 a Berkeley, Università della California, ed è approdato sul palcoscenico capitolino in un recente allestimento del Théâtre du Châtelet di Parigi. Mentre il libretto è firmato dalla scrittrice June Jordan, autore della musica è il compositore statunitense John Adams, nato nel 1947, e molto noto anche per altre opere liriche, quali Nixon in China (1987) e La morte di Klinghoffer (1992). La lunga e curiosa intestazione ricalca la frase pronunciata, e riportata su un quotidiano locale, da un sopravvissuto al terremoto che nel 1994 colpì, con effetti catastrofici, una vasta zona a nord di Los Angeles, in California. Terremoto che interviene in questa rappresentazione, proprio all’inizio del secondo atto, a condizionarne lo sviluppo.

Opera 2Song play, spettacolo di canzoni o meglio dramma, commedia musicale, è il sottotitolo. Si tratta, in effetti, di una sequela di oltre venti quadri musicali, non concatenati tra loro in un racconto organico, quadri nei quali ogni personaggio è delineato dalla musica che canta, e che lo riverbera come un’effigie. Una forma che si potrebbe avvicinare al musical, ma che se ne distingue sia perché manca una trama, una vicenda, sia per l’assenza di danze e cori. Eppure lo spettacolo esercita sul pubblico una forte presa, in un mosaico emotivo che spazia attraverso stili differenti, dal minimalismo al bebop al jazz all’hard rock al blues al gospel al trio vocale a cappella all’improvvisazione e via continuando, dalle sonorità acustiche a quelle sintetiche ed elettroniche. E questi stili diversi riflettono personaggi diversi: sette giovani di Los Angeles, di varia etnia e condizione sociale, che in se stessi descrivono temi svariati come l’identità sessuale, il conflitto razziale, i difficili rapporti con autorità e istituzioni, il maltrattamento degli immigrati. Sette personaggi alla ricerca del senso della vita e dell’amore, che si misurano dapprima con le loro ineguaglianze, e poi con l’irrompere di un terremoto che spazza via ogni progetto, e impone infine una comune catarsi, un ventaglio di riflessioni individuali, di sentimenti che appaiono colorarsi di tinte positive.

Elegante e complessa la partitura orchestrale, che, rinunciando alla morbidezza degli archi, impegna nove strumenti: tre tastiere elettroniche, un pianoforte, un sassofono, un clarinetto (anche clarinetto basso), una chitarra (elettrica e acustica), un contrabbasso (anche basso elettrico), una batteria jazz. L’insolito ensemble – anche sotto quest’aspetto John Adams si conferma compositore del tutto atipico – funziona egregiamente nel difficile attraversamento di molteplici stili, tenuto bene in pugno dal direttore australiano Alexander Briger, già esperto dell’opera. E l’impegno degli interpreti non è semplice, dal momento che la partitura, qua e là, richiede agli esecutori strumentali anche qualità improvvisative e creative, sia pure nella scia di modelli codificati. Molto bravi i sette interpreti vocali, che meritano la citazione: Joël O’Cangha, Janinah Burnett, Jeanine De Bique, Grant Doyle, Daniel Keeling, Wallis Giunta, Patrick Jeremy.

Opera 3La raffinatezza, con la quale Adams ha trattato e rielaborato i linguaggi della musica popolare, è perfettamente corrisposta dalla geniale messa in scena, coordinata da Giorgio Barberio Corsetti, che della produzione nata in Francia è non soltanto regista, ma anche ideatore della scenografia, accanto a Massimo Troncanetti e alle Officine K. Vanno altresì ricordati i costumi di Francesco Esposito, le luci di Marco Giusti, il disegno suono di Mark Grey, i video di Igor Renzetti, l’animazione delle immagini di Lorenzo Bruno e Alessandra Solimene. Ciò perché lo spettacolo, articolato in molti quadri che, per ogni canzone, crea mondi e ambienti diversi, è concepito come un’autentica pittura in movimento, con risorse multimediali, video e animazioni che potrebbero collocarsi in qualsiasi città. Sotto tale aspetto, quindi, non soltanto questa Los Angeles ci è vicina, ci appartiene, ma da tutto l’insieme risulta che si tratta di un’opera per tutti, che anche visivamente avvicina al teatro musicale un pubblico che abitualmente non ci va, e che non conosce il teatro lirico. In altri termini, qui è il bello, è un’opera che sa parlare anche ai giovani di problemi giovanili. Un’opera che vive di una musica che i giovani amano, e che può diventare teatro.

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