Francesco Arturo Saponaro
Notizie sul Festival della Valle d’Itria

Márai in musica

Appena conclusa a Martina Franca la 41° edizione di una rassegna che si impegna in produzioni particolari. Come “Le braci” nella composizione di Marco Tutino, la “Medea in Corinto” di Mayr e l’opera buffa “Don Checco”

Per sua natura, un festival deve offrire produzioni particolari, magari originali, e proporre idee che meno facilmente si possano incontrare in una normale stagione di repertorio. Il che non sempre accade. Il Festival della Valle d’Itria, che si è appena concluso a Martina Franca, è invece tra quelli che onorano degnamente la loro missione. Giunta alla 41esima edizione, sotto la presidenza di Franco Punzi e la direzione artistica di Alberto Triola, quest’anno la rassegna ha messo in scena tre opere: due rarissime nei tempi moderni, e una del tutto nuova. Medea in Corinto, melodramma tragico, nasce nell’estate del 1813, e debutta al Teatro di San Carlo, in Napoli, nel novembre dello stesso anno; lo stesso San Carlo ne aveva proposto nel 1977 l’unica, fino a ieri, ripresa nei nostri tempi. Don Checco, opera buffa datata al 1850, aveva conosciuto l’unica messa in scena moderna l’anno scorso, 2014, ancora una volta al San Carlo. Le braci, novità di Marco Tutino dal romanzo dello scrittore ungherese Sándor Márai, ha presentato a Martina Franca la prima esecuzione della versione definitiva.

MedeaAutore della Medea in Corinto, Johann Simon Mayr (1763-1845) è nominato nella storia della musica anzitutto come maestro di Gaetano Donizetti. E invece ai suoi contemporanei fu noto soprattutto come compositore di opere liriche, oltre che di musica vocale, strumentale, e sacra. Di origini germaniche, fin da giovane Mayr si trasferì definitivamente in Italia, a Bergamo, dove ben presto italianizzò anche il nome proprio in Giovanni Simone, con il quale appunto si fece conoscere. A Bergamo nacque poi Donizetti, nel 1797. Questi, non potendo per le umili origini permettersi di studiare, fu volentieri accolto da Mayr come discepolo dal 1806 al 1815, in quelle “Lezioni caritatevoli di musica” che la lungimiranza dello stesso Mayr aveva indotto a istituire nel 1805, insieme, anni dopo, a quell’Unione Filarmonica (1822) che tantissima musica avrebbe fatto conoscere agli amatori bergamaschi.

L’epopea degli Argonauti, guidati da Giasone alla conquista del Vello d’oro, e facilitati in tale impresa dai magici poteri di Medea, che poi sposerà lo stesso Giasone, era famosa fin dall’antichità. Naturale che la vicenda della maga, tanto tragica quanto singolare nelle sue tinte forti, fin dalla nascita nel 1600 del teatro musicale ispirasse via via molti musicisti, e continuasse a farlo ai nostri giorni. Nel panorama storico, rimane però, come pietra miliare che segnerà un’epoca, la Médée di Luigi Cherubini, che appare a Parigi in età napoleonica, nel clima neoclassico che diverrà tipico dell’impero bonapartista. Giovanni Simone Mayr – che aveva fama di essere aperto alle novità d’oltralpe, e quindi attento ai gusti e alle mode parigine e viennesi – a inizio Ottocento è raggiunto dalla proposta di Domenico Barbaja, impresario del Teatro di San Carlo, di comporre a sua volta una nuova Medea. Poiché in quegli anni il Regno delle Due Sicilie era dominato da Gioachino Murat, cognato di Napoleone, Barbaja desiderava allargare la sua offerta d’impresario con spettacoli affini ai gusti della locale corte francese. Raccolto l’invito, Mayr convolge subito, per la stesura del libretto, il giovane poeta Felice Romani, col quale aveva già avuto occasione di collaborare, e che presto diverrà un celebre e ricercato librettista, specialmente di Vincenzo Bellini. I due s’intesero subito sulla scelta del soggetto, Medea in Corinto appunto. Mayr aveva avuto modo di ascoltare a Vienna il capolavoro di Cherubini; Romani, che aveva vissuto qualche anno a Parigi, aveva conosciuto bene il librettista della Médée. Nel novembre 1813, il frutto del loro lavoro debutta sul palcoscenico napoletano, con un successo che porterà lì a un decennio di repliche, e a una lunga, fortunata diffusione in altri teatri italiani ed esteri fin dopo metà Ottocento. Dalla metà del secolo XX, tuttavia, il felice recupero della Médée di Cherubini grazie alle interpretazioni di Maria Callas, ha oscurato le possibilità di riascolto del lavoro di Mayr e Romani.

martina francaNell’allestimento di Martina Franca, Medea in Corinto ha rivelato tutto il proprio fascino. Pur senza esibire arie memorabili, l’opera ha messo in luce la sua compiuta bellezza, mostrando interessanti peculiarità di gusto e di trattamento compositivo, specie in confronto al coevo panorama italiano. Molto merito di tal esito va attribuito al direttore d’orchestra, Fabio Luisi, sul podio dell’Orchestra Internazionale d’Italia, che gli ha ben corrisposto, e alla testa del Coro “Transilvania” di Cluj-Napoca in Romania, preparato da Cornel Groza a un’apprezzabile resa. La concertazione di Luisi ha magnificamente lumeggiato raffinatezze e tratti distintivi della partitura, cominciando dal catalizzare un’accesa temperatura drammatica che, lungi dalla misura e dal decoro neoclassico di Cherubini, disegna qui in Mayr una linea interpretativa di spiccata energia e incisività, pur tra qualche veemenza sonora che qua e là risulta eccessiva. Nella compagnia di canto, sono emerse le personalità di Creùsa – alla quale il soprano Mihaela Marcu ha conferito vocalità morbida ed espressiva, omogenea in ogni registro, ben calata nel suo personaggio – e del tenore Enea Scala, che ha dato alla figura di Egeo non soltanto un bel colore vocale, ma anche accenti intensi e persuasivi. Molto appropriato al ruolo anche il basso Roberto Lorenzi, nella difficile parte di Creonte, e bravo l’altro tenore Michael Spyres: un Giasone meritevole il suo anche di qualche  indulgenza nelle forzature su qualche stratosferico sovracuto. Impegnatissimo, nella parte di Medea, il soprano Davinia Rodriguez, che si fa apprezzare per la passione e gli accenti che impresta al suo complicato personaggio. Il progetto scenografico di Maria Paola Di Francesco occupa l’intero palcoscenico con una piattaforma sghemba e inclinata, tagliata diagonalmente da un camminamento percorso continuamente. Ben calibrato, il disegno luci di Marco Giusti ebelli i costumi di Tommaso Lagattolla, anche se lascia perplessi quello di Giasone, troppo fasciato e con una parrucca effetto Renato Zero, che non aiuta la credibilità del personaggio. E lascia perplessi anche la regia di Benedetto Sicca, che appare manierata e sopra le righe, talvolta intellettualistica.. Alla fine, i lunghi e calorosi applausi del folto pubblico hanno premiato l’alta qualità d’insieme di una produzione impegnativa e importante.

Don CheccoDopo Medea in Corinto, gli altri due titoli che hanno attirato interesse sul programma operistico del Festival della Valle d’Itria. L’opera buffa Don Checco debutta nel luglio 1850 al Teatro Nuovo in Napoli, all’epoca santuario del teatro comico nel Regno delle Due Sicilie. Ne è autore, su libretto di Almerindo Spadetta del quale poco o nulla si sa, il giovane musicista Nicola De Giosa (1819-1881), compositore barese di scuola napoletana, la cui affermazione sarà consacrata proprio dal trionfale successo di questo lavoro. Un successo corroborato non soltanto da un’infinità di repliche, ma da una trentina d’anni di fitta circolazione sui palcoscenici italiani ed esteri, con gli opportuni aggiustamenti. Si tratta infatti di una tipica commedia degli equivoci, nella quale la tradizione napoletana infilava volentieri inserti dialettali, associati a qualcuno dei personaggi, inserti che immancabilmente garantivano effetto comico e favore di pubblico. La vicenda del Don Checco è quella tipica: l’amore di una coppia di giovani è contrastato dal padre di lei, ma l’arrivo di uno straccione, Don Checco appunto, che si esprime in dialetto ma è scambiato per un aristocratico travestito, condurrà al lieto fine attraverso l’immancabile smascheramento e il generoso intervento di un autentico nobile, osservatore marginale ma lui sì non riconosciuto, dell’intreccio.

Il vasto successo del Don Checco è confermato anche dalle molte edizioni di arie staccate, con accompagnamento di pianoforte, che circolavano all’epoca, e dall’edizione dell’intera opera in spartito per canto e pianoforte, prodotta da Ricordi ancora nel 1919. L’annotazione è opportuna perché, per gran parte del secolo XX, negli ambienti musicali è prevalso uno snobistico giudizio negativo verso questo teatro musicale, visto come farsesco e macchiettistico anche per la commistione di lingua e dialetto, e quindi adatto a palati facili, di gusto dozzinale. Al contrario, la moderna musicologia ha saputo restituire a questo genere comico dignità e dimensione d’arte, illuminando tendenze e consuetudini del relativo contesto storico, e sottolineandone il coevo valore nella vita teatrale della società meridionale prima dell’Unità. Questo recupero martinese del Don Checco è frutto di una coproduzione con il Teatro di San Carlo, che l’ha messa in scena nel 2014, e di una precedente esecuzione in forma di concerto, tenutasi a Bari nel 2013 per la revisione e la direzione di Lorenzo Fico. Molto riuscita, e apertamente gradita dal pubblico, la messa in scena si avvale della regia spiritosa e garbata di Lorenzo Amato, che si tiene alla larga da facili effetti, e della scenografia di un esperto della materia come Nicola Rubertelli, con costumi di Giusi Giustino e disegno luci di Franco Machitella. Quanto al cast vocale, consensi entusiasti per il basso buffo Domenico Colaianni, beniamino locale comunque perfetto. E belle anche le prove del tenore Francesco Castoro, del soprano Carolina Lippo, dalla voce piccola, ma impeccabile in agilità e colorature, del baritono Carmine Monaco. Se la son cavata bene anche il Coro “Transilvania” e l’Orchestra Internazionale d’Italia, diretta da Matteo Beltrami: una bacchetta vigile, precisa, ma proprio nulla di più.

Le braciTra le positive novità introdotte nel Festival della Valle d’Itria dall’attuale direzione artistica, vi è lo spazio riservato al teatro musicale contemporaneo. Quest’anno è stato invitato a produrre un suo lavoro il compositore Marco Tutino, autore tra i più noti ed eseguiti di oggi, alfiere di scelte stilistiche lontane da chiese e sette che hanno caratterizzato decenni di musiche d’avanguardia. L’interesse di Tutino è per lo più orientato verso un linguaggio neomelodico, che esplicitamente intende essere anche comprensibile al pubblico. Ispirandosi al romanzo dello scrittore ungherese Sándor Márai, Le braci, Tutino ne ha ricavato un libretto, che ha poi messo in musica. Da voci raccolte dietro le quinte, pare che a stendere questo libretto fosse stato chiamato Gabriele Lavia. Non avendo questi potuto onorare l’impegno, sembra, Tutino ha provveduto da solo al libretto. E purtroppo i risultati si vedono. Perché il lato debole di quest’opera è proprio nel testo, che, senza essere per forza letterariamente alato, manca comunque di afflato poetico, e quindi della necessaria visionarietà. A volte si scivola dritti dritti verso imbarazzanti banalità: “Ti ho portato un regalo”, dice Konrad; “Grazie, non dovevi”, risponde Kristina. E perché non aggiungere: “Quanto zucchero nel caffè?”… No. A ognuno il suo mestiere. La tematica, tipicamente intimista, sarebbe interessante, ma se si fosse coinvolta una penna all’altezza… Purtroppo questa mediocrità drammaturgica si riverbera anche nella riuscita musicale. La partitura è ben scritta, come sa fare Tutino, con vari momenti anche raffinati, ma non riesce mai a decollare, a stimolare e a mordere l’emozione dell’ascoltatore. E bisogna ringraziare le qualità interpretative del direttore d’orchestra, Francesco Ciluffo, che ha saputo mettere in luce queste nuances. Una bacchetta senz’altro sensibile e comunicativa, ma alla quale però bisognerebbe somministrare un sedativo, data la fastidiosa, esagerata, inutile enfasi gestuale. In conclusione, nonostante l’innegabile talento musicale di Tutino Le braci è apparso un lavoro senza forte personalità, che avrebbe potuto appartenere anche a epoche lontane…

Molto elegante però la messa in scena. La regia di Leo Muscato ha concepito un meccanismo articolato in una serie di flash-back, indubbiamente calzanti anche grazie al bell’apparato scenografico di Tiziano Santi, che ha funzionato benissimo quale contenitore di suggestioni e struggimenti, col disegno luci di Franco Machitella e i costumi di Silvia Aymonino. Eccellente la compagnia di canto. Henryk era il basso Roberto Scandiuzzi; il baritono Alfonso Antoniozzi ha dato voce a Konrad; Kristina era il soprano Angela Nisi; Nini, il contralto Romina Tomasoni. E ugualmente bravi, nei flash-back, anche il baritono Pavol Kuban, giovane Henryk, e il tenore Davide Giusti, giovane Konrad. Applausi cordiali all’autore e agli interpreti, ai quali vanno aggiunti i bravi danzatori della Fattoria Vittadini.

Facebooktwitterlinkedin