Marta Morazzoni
Dal testo all’ultimo lavoro di Luca Ronconi

La torre dei Lehman

Evoca la biblica Babele la vicenda dei banchieri americani, mirabilmente ricostruita da Stefano Massini in un perfetto equilibrio tra narrazione e recitazione. Un secolo e mezzo di storia: di uomini e denaro

Pensare che la storia di una banca possa essere un soggetto seducente per un lettore/spettatore non addentro nei segreti meccanismi del mondo economico e finanziario è un bell’azzardo. Credo che Stefano Massini nel comporre la Lehman Trilogy (Einaudi, pagine X-334, 17,50 euro) sia partito da questo azzardo, con un presupposto fondamentale: la storia di una banca è una storia di uomini. Dunque, materia per conquistare lettori e farsene conquistare da scrittore non manca. L’esito della sfida intorno a un soggetto costituzionalmente arido era in certo senso già scritto in questa premessa; l’in più che chiude il cerchio di un risultato perfetto è nella virata stilistica che Massini ha dato al tema. Credo che le domande che uno scrittore si fa all’incipit di un’opera cadano, una volta stabilito il soggetto, sul come condurlo. Lo stile è la pietra di paragone. La scelta di Massini, non so se fin da principio rivolta alla scena o se giocata su un’ibridazione tra parola letta e parola recitata, svela una qualità interessante, ed è il ritmo. Lo si coglie dalla struttura della pagina, un a capo che non vuole essere versificazione, ma quasi segna il calibro del respiro dei protagonisti e del lettore.

LehmanTrilogyLa trama si snoda nel corso di un secolo e mezzo, dalla metà dell’800, con l’arrivo a New York del primo dei tre fratelli Lehman, emigrato da un villaggio in Baviera, al 2008, quando la Lehman Brothers, colosso bancario statunitense, crolla aprendo le porte a una delle più gravi crisi del mondo della finanza forse dal 1929; stagione da cui la stessa banca, con una strategia feroce verso i concorrenti, era uscita indenne per non dire rafforzata. Una storia di denaro e una storia di uomini, appunto, un binomio molto interessante. I tre fratelli ebrei che si insediano nel sud degli Stati Uniti, in Alabama, si arricchiscono piano piano con il commercio del cotone, percorrono la storia maggiore e la storia del paese, dalla guerra di secessione alle grandi svolte di civiltà, il treno che attraversa il continente e i primi voli, e quella dei Lehman: l’entrata in borsa e la scalata sociale oltre che economica di una famiglia che si ramifica: muore il primo dei tre fratelli e gli altri due, in continuità con la lezione di saggia e ardita amministrazione appresa sul campo, tramandano ai loro figli un patrimonio di esperienza e di audacia.

lehman-copMassini ha percorso nel tramite della vicenda di una banca il tragitto di due culture a confronto, quella dell’America in crescita esplosiva e quella dell’antica cultura ebraica europea: la radice della famiglia Lehman si reimpianta in un terreno fertile saggiamente alimentato dall’esperienza e cresce nelle alterne vicende della storia americana, stando sempre dalla parte giusta al momento giusto. Ma è anche a suo modo una storia religiosa, non solo perché l’autore, con una conoscenza sottile della cultura ebraica, ne evoca i riti e le tradizioni: c’è una sorta di severa nemesi, la condanna dell’ubris umana che cade sugli ultimi detentori del patrimonio. Non può non venire in mente al lettore/spettatore la narrazione biblica della torre di Babele, quando la tracotanza dei costruttori ha mosso infine la mano di Dio a scuotere dalle fondamenta il loro progetto.

massini-ronconiÈ un’interpretazione del tutto arbitraria quest’ultima e non è detto che fosse nelle intenzioni o nelle pieghe inconsce della mente dell’autore: forse è solo una lettura che mi affascina, e fa parte di quella libertà interpretativa che i lettori si concedono, o a volte si arrogano. I lettori e gli spettatori: perché la traduzione che Luca Ronconi ha fatto della Lehman Trilogy in teatro, ed è stato il suo ultimo lavoro compiuto, ha in sé qualcosa di un misticismo laico. La severità di un regista tra i più silenziosi della nostra scena si è applicata con efficacia a questo allestimento; quanto Ronconi ha chiesto agli attori nel lungo percorso della rappresentazione è esemplare di una sorta di culto della recitazione, asciugata da enfasi e ridondanze. L’ideatore delle grandi macchine del teatro, evocate da un barocco fascinoso al tempo della messa in scena dell’Orlando Furioso o ancora di più della Torre di Hofmannsthal, si è condotto a uno spazio scenico riempito unicamente dell’efficacia della parola, della misura del respiro e della fragilità dell’attore solo sulla scena. Tutto questo sarebbe altisonante per eccesso di semplicità, se non fosse contenuto dentro una vena di sofisticata ironia, intrinseca nel testo (Massini è stato efficace a rilevare l’intelligenza ironica e l’umorismo della cultura ebraica) e svolta nell’impostazione della recitazione.

È interessante, infine, come un testo di questa natura possa essere autonomamente narrazione e recitazione, possa reggersi bene nella fantasia del lettore che dà voce ai personaggi, senza poi sentirsi, chissà come!, smentito nelle voci degli attori che recitano quei personaggi. Difficile dire se e quando si verificherà ancora un tale gioco di equilibri.

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