Luca Fortis
Statue, avori e bassorilievi

Il volto dell’Africa

Al Mudec di Milano, la mostra “Africa, la terra degli spiriti” racconta come la cultura europea ha assorbito quella tradizione. Fatta di corpi, illusioni e misticismo primordiale

Curare una mostra sull’arte africana è sempre molto complesso. L’accusa di avere una visione colonialista è dietro l’angolo. Eppure ormai non dovremmo più cadere in certi tranelli e lasciare le riflessioni sul colonialismo agli storici. Un incontro tra popoli, anche se avvenuto sotto l’egida del più brutale colonialismo, rimane pur sempre un incontro. Se molti furono sfruttatori, altri invece amarono davvero la cultura che scoprirono. La splendida mostra Africa, la terra degli spiriti, organizzata dal Mudec di Milano e curata da Claudia Zevi, con Gigi Pezzoli, ci offre una selezione delle opere che affascinarono i collezionisti di allora.

Nella prima sala si è avvolti da una selva di volti che colpiscono per la loro atavica antichità e modernità. Ogni singolo pezzo fu collezionato perché considerato un pezzo unico e irripetibile. La prima sezione intende raccontare come l’arte moderna dei primi del Novecento fu sconvolta dall’incontro con l’arte africana. Ogni volto parla al visitatore, il suo linguaggio, sconosciuto ai non addetti ai lavori, racconta di riti religiosi, mitologie, regni e quotidianità.

Impossibile non essere affascinati da culture che hanno saputo sintetizzare con scultore essenziali visioni della vita spesso molto complesse. Quello che affascinò pittori come Picasso o Matisse fu proprio la capacità di trasmettere un’idea o una visione dell’esistenza con pochi tratti, in alcuni casi stilizzati, in altri più realistici. Agli occhi di un europeo, figlio della nostra epoca, le statue africane presenti nella mostra sono un trionfo di emozioni. I sensi non possono che perdersi in un vortice in cui l’arte parla di antenati, spiriti e quotidianità. I morti e i vivi trascorrono l’esistenza insieme. Una statua non rappresenta uno spirito, semplicemente lo è. I Telem, i Dogon, i Bamana, i Dan, parlano una lingua complessa di non semplice decifrazione, ma di fascino immediato. Non poche polemiche sono nate, nell’ultimo secolo, sulla fascinazione che l’occidente ha avuto per l’Africa. Una delle accuse più ricorrenti è quella di scadere in una visione romantica, fantastica e non realistica. Ma in fondo questo ha poca importanza, quello che conta è che le arti africane abbiano colpito per secoli i loro popoli come quelli stranieri. Se poi, sul significato di queste opere si aprano dibattiti, polemiche, o si abbiano opinioni diverse, questo non può che essere un successo per le culture che le hanno create. In fondo è normale che ogni essere umano percepisca un’opera d’arte a seconda del suo gusto personale e del filtro della cultura in cui è nato. Saranno i fruitori delle opere, gli esperti d’arte, gli antropologi, gli storici, i figli di quei popoli che le hanno create o gli stranieri che le vedono, a dibattere sul loro significato e sulle emozioni che provano al loro cospetto.

arte africana2La seconda sala racconta la stupenda epopea del Regno del Benin, nell’attuale Nigeria, le cui opere d’arte divennero parte delle collezioni dei Medici di Firenze come dei re portoghesi e inglesi. Gli avori, le ceramiche e i bronzi lavorati dagli artisti locali entrarono nel pantheon dei tesori che ogni viaggiatore seicentesco sognava di possedere. Non sono poche le testimonianze della splendida capitale del regno del Benin, Edo e la sua corte reale. Questo regno ebbe per secoli ottimi rapporti con le monarchie occidentali a cui vendeva le sue opere d’arte, spezie, ma anche schiavi. Le cose cambiarono improvvisamente, quando alla fine del diciannovesimo secolo i britannici cominciarono ad avere chiare mire imperialistiche. La capitale fu distrutta per rappresaglia contro l’uccisione di alcuni inglesi durante proteste contro la firma di un trattato che trasformava il regno in un protettorato. I soldati distrussero i gloriosi palazzi, ma non le opere d’arte che furono sparse per le corti di mezza Europa. Ancora oggi al British Museum trionfano le splendide formelle di bronzo scolpito con scene della corte reale che adornavano i portoni del palazzo imperiale e che avevano colpito gli occhi dei viaggiatori europei per secoli.

La terza sezione della mostra affronta la visione religiosa di molti popoli africani. Raccontare la non separazione del mondo dei morti e dei vivi a degli occidentali non è affatto semplice e la mostra ci riesce molto bene. Per secoli nel continente i popoli hanno dialogato con le forze della natura e con gli antenati per regolare o prevedere tanti aspetti della vita. La mostra prosegue poi con riflessioni sul potere nelle corti africane e con una sezione che racconta, alla Milano del Design, come in Africa per secoli, l’arte sia stata applicata agli oggetti di uso quotidiano.

L’ultima parte riflette sul tema più studiato e presente nell’immaginario occidentale e probabilmente quello meno compreso: la maschera e la danza. Questi due elementi uniti alla musica incarnano gli spiriti o gli eroi o gli antenati. Avevano una funzione sociale e religiosa immensa che con la modernità ha finito per perdersi in parte. Per molto tempo, le maschere sono state proibite agli occhi dei profani e hanno avuto un ruolo fondamentale nelle guerre o come difesa contro la stregoneria. Al termine di questo lungo e articolato viaggio artistico le sensazioni sono positive e viene voglia di tornare ancora in quelle terre per scoprire o riscoprire le tante sorprendenti e complesse culture che hanno popolato e ancora popolano l’Africa.

Uscendo dalla mostra, camminando nella Milano post industriale immersa tra i Navigli, tutti i volti incontrati nella mostra sembrano seguirti. I suoni dei tamburi, le maschere che danzano, gli antenati e gli stregoni ti accompagnano. I vivi e i morti camminano con te lasciandoti intuire la loro visione dell’universo e della vita.

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