Paolo Ranfagni
Dopo la crisi greca

Cercasi solidarietà

L'Europa è a un bivio. La leadership tedesca punta a un'Unione dove contano solo gli interessi dei singoli paesi. E invece Juncker ha lanciato una campagna per il ritorno alle radici solidali. Ce la farà?

Quanto potrà sopravvivere un’Unione europea tra 29 paesi, dopo la rottura di fatto del legame di solidarietà? All’indomani del faticoso e contrastato accordo sulla Grecia, il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker ha posto il problema: «Si è evitato il peggio – ha detto a denti stretti – non perché siamo stati particolarmente saggi, ma perché avevamo paura. È la paura che ha permesso l’accordo. Sì, abbiamo evitato il peggio. Ma su questo punto, come sull’immigrazione, ho constatato una rottura di fatto, che prima era solo virtuale, dei legami  di solidarietà in Europa. E dunque esco da questa esperienza molto preoccupato per il futuro. Non parlo solo della Grecia: c’è un insieme di elementi che ci fanno preoccupare molto. La maggior parte dei paesi erano più concentrati sugli aspetti della propria politica interna che sulla soluzione del problema. Ho sempre considerato la costruzione europea un edificio fragile. Ora tutto è possibile: i vecchi demoni, i risentimenti, ci sono nazioni schierate contro le altre».

Juncker non ha atteso molto per tornare sull’argomento, e lo ha fatto prendendo di petto l’ultimo tragico naufragio al largo della Libia. «Ci sono dei momenti in politica – ha detto – in cui non bisogna inseguire il consenso, momenti in cui bisogna fare la cosa giusta anche se è impopolare». In entrambe le circostanze il convitato di pietra destinatario dei messaggi è Angela Merkel, la cancelliera che, in nome della popolarità (o del populismo), governa da un decennio il suo paese, evitando sempre accuratamente ogni argomento impopolare. E che, da qualche tempo, prova a governare anche l’Europa, nell’assenza virtuale di solidarietà.

Chiamando in causa la questione decisiva della solidarietà, Juncker mette in discussione il modo in cui la Germania esercita di fatto una leadership impropria e lo fa riproponendo i valori etici e sociali che erano stati capaci di riunire i sei Paesi fondatori, all’indomani di una guerra fratricida, per costruire una comune appartenenza, nella coscienza di interessi e finalità comuni. La solidarietà che nasceva dalle macerie della guerra era il cuore e il motore stesso della costruzione europea e nasceva da una convinzione comune: che, unendo le forze, si potesse assicurare a tutti gli Stati membri e ai loro cittadini migliori condizioni di vita.

Allora questa scelta solidale s’imponeva per necessità, e stare in Europa appariva per tutti una garanzia. Oggi però quel modello appare superato, il mercato è diventato il regolatore supremo non solo dell’economia ma della vita stessa del cittadino europeo, che sente l’Unione sempre più estranea e lontana. Per contro la solidarietà si è appannata sempre più, via via che i singoli Stati, allargamento dopo allargamento, rialzavano la testa e dimenticavano il recente passato.

Così l’Europa, che deve fare i conti con 29 paesi sempre più concentrati sui singoli interessi nazionali, ha finito per smarrire la percezione di un destino comune. E il progetto degli Stati uniti d’Europa oggi appare assai più lontano di ieri.

angela merkel10Per questo Juncker ha deciso di dar fuoco alle polveri, mettendo finalmente in discussione la cosiddetta “leadership europea” che Angela Merkel si è costruita, facendo pesare la forza della Germania, in assenza di una forte Unione. Primo presidente approdato alla guida della Commissione non per grazia ricevuta, ma con l’autorevolezza di una piena legittimazione democratica, non poteva accettare di continuare a svolgere quel ruolo di maggiordomo, che il suo predecessore Manuel Barroso aveva esercitato e per il quale era stato opportunamente prescelto.

Per cominciare ha subito ospitato, sotto le sue ali protettive, il giovane Alexis Tsipras, di cui si è rivelato il miglior consigliere nel lungo braccio di ferro con i creditori internazionali della Grecia: quasi una dichiarazione di guerra per Merkel. Da lui arriva la “proposta migliore” per l’accordo, che in un primo tempo Tsipras rifiuta. Ma, quando diventa chiaro che l’esito del referendum fa il gioco di chi vuole portare la Grecia fuori dall’euro, ecco che lo guida, passo dopo passo, a recuperare la posizione e a concludere un accordo quasi miracoloso. Insomma c’è molto Juncker e assai meno Merkel nella conclusione positiva di quella difficilissima trattativa.

Così appare chiaro che, d’ora in poi, il presidente della Commissione utilizzerà tutte le occasioni che gli verranno fornite per smarcarsi da una posizione subalterna ai governi e provare a rimettere al centro della scena l’Europa, ridimensionando il ruolo che la Germania si è ritagliata, a onor del vero più per l’assenza di una guida comune che per una chiara volontà di leadership. La sua gestione non brilla, preda com’è di un elettorato sempre più chiuso ed esigente e di un governo di coalizione che la obbliga a giocare troppe parti in commedia. La Germania racconta la vecchia Europa delle nazioni, pensa a se stessa e non aspira ad esercitare una vera egemonia europea, ma non intende neppure abdicare al ruolo di leader che Merkel si è conquistata. Quindi c’è poco da stupirsi se l’Europa, in questa situazione, ha ormai smarrito del tutto il significato stesso del concetto di solidarietà.

Ecco dunque che si aprono vere e proprie praterie per un presidente che intenda veramente giocare il ruolo che gli compete. Quello di Juncker, per il momento, è un primo appello a tornare ai valori delle origini, pena il fallimento del grande progetto europeo. Resta purtroppo il problema che la maggioranza degli Stati membri non ragionano in grande e si accontentano di fare i vassalli della Germania. Questo è il grande paradosso europeo: grazie soprattutto all’infausto mega allargamento d’inizio secolo ai paesi dell’est, la Germania è diventata ormai depositaria in Europa di un potere esagerato, che non sa e probabilmente non intende neppure esercitare. A meno che i suoi elettori, prima o poi, non la costringano. Populismo docet.

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