Sabino Caronia
Ricordo di Elio Fiore

Poeta della certezza

Ricorrono oggi gli ottant’anni dalla nascita dell’autore del “Cappotto di Montale” e di tante raccolte personalissime in cui la lezione dei maestri più antichi si fonde con quella dei più prossimi. Con una felice visionarietà sostenuta dalla fede: nella parola poetica ma soprattutto religiosa

Poco più di cinquant’anni fa, nell’ottobre 1964, una piccola casa editrice milanese, le Edizioni Apollinaire, diretta da Guido Le Noci, dava alle stampe Dialoghi per non morire, opera d’esordio di un poeta allora giovanissimo che si sarebbe poi affermato come una delle voci più originali del panorama letterario, Elio Fiore. Nei trentatré componimenti di cui è costituita la raccolta Fiore, rivelando la sua impronta personalissima, rielaborava, fondendole, la lezione ermetica dell’amatissimo Ungaretti e le suggestioni del populismo neorealista, e tuttavia la sua attenzione agli elementi simbolici, la felice visionarietà che avrebbe caratterizzato le successive raccolte, già emergeva inequivocabilmente. Nel primo componimento, Madre oggi ricorre una memoria dura, il poeta rievoca l’evento cruciale della sua esistenza, il bombardamento di Roma del 19 luglio 1943. Protagonista assoluta della lirica è la madre, che rimane per tre ore con lui sotto le macerie della casa distrutta. Alla luce succede di colpo il buio sinistro, i cumuli di calcinacci, alla serenità dell’infanzia il dolore di una tragedia che mette improvvisamente il fanciullo nel tormento e nello spaesamento. Significativo a questo proposito è il contrasto fra l’infanzia spensierata, gli «ululi e grida» che non temeva fanciullo e l’«aria torbida», il «buio», l’oppressione delle macerie.

Non è un caso che ai due elementi antitetici si riferiscano due delle migliori poesie del libro, Battevano i soldati alle porte coi fucili, ove la quiete del guscio domestico appare violata dall’irruzione dell’evento bellico incarnata dai soldati tedeschi (e quella violazione è tanto più crudele in quanto avviene durante la festività del sabato ebraico, giorno della quiete per eccellenza, del riposo casalingo donato e comandato da Dio in memoria del suo riposo) e Per Janka, ove la memoria amorosa, la nostalgia della remota estate del quarantasette, fa tutt’uno con la fusione auspicata «in un mare senza frontiere». A Fiore, sradicato prematuramente dall’armonia infantile, non restava che tentare di ritrovare, per via mistica e poetica, quell’armonia perduta: in questo senso sono da intendersi l’ansia di dialogo che dà il titolo alla raccolta, le «orbite di luce» che contrassegnano la fedeltà alla vita nella poesia Vita ti prometto di essere fedele, la «perseveranza d’amore» sottolineata come la principale attitudine della madre nel componimento di apertura della raccolta.

elio fiore«Fedele alla Luce e allo Spirito», secondo la raccomandazione fattagli a suo tempo da Hermann Hesse, Elio Fiore si affacciava con questi Dialoghi per non morire sulla scena letteraria. In questa “fedeltà alla vita” è forse il carattere più significativo della sua poesia, se è vero che Vita ti prometto di essere fedele è, come abbiamo visto, un componimento guida della sua prima raccolta, Dialoghi per non morire. Anche la sua devozione per Mario Luzi si può intendere a pieno solo alla luce di questa “fedeltà alla vita”: Luzi era infatti per Elio soprattutto il poeta di Vita fedele alla vita, una poesia tema di Sui fondamenti invisibili (non a caso, come ha osservato Stefano Verdino, la definizione che Luzi dà di Cent’anni di solitudine, fedeltà alla vita, coincide con il titolo di quel componimento esemplare di Sui fondamenti invisibili).

Ricordo il testo della lectura Dantis che doveva tenere a Ravenna l’8 aprile 2000 su invito di Raboni. Era intitolato Dante poeta della certezza e ricordava l’esperienza visionaria di Dante, il suo viaggio dallo smarrimento e dalle tenebre della selva oscura a una certezza progressiva nell’ascesa verso Dio. Non a caso, del resto, Inferno, Purgatorio e Paradiso erano i nomi che aveva dato ai tre cortili della casa dove per tanti anni aveva abitato in via del Portico d’Ottavia. Dell’elegante Antologia Poetica pubblicata dall’editore Tallone con introduzione di Carlo Bo voglio qui ricordare le prime parole di A notte alta, un componimento scritto in occasione della morte della moglie di Walter Maestosi: «”Non vi si pensa quanto sangue costa”/ è un verso di Dante,/ ma stanotte lo ricreo io,/ se penso alla vita trascorsa/ per affermare la verità del mio canto,/ per vincere la solitudine che mi coglie/ talvolta tra gli uomini,/ per ricreare con la parola/ la realtà invisibile che mi avvolge,/ e vivere con la decenza montaliana/ una realtà, continuamente/ alterata e violentata da una storia/ tragica e orrenda./ Il dotto Amaldi, certo/ non si sbaglia, quando afferma/ che nell’Universo parte/ della materia è oscura./ Dice che solo il 10% è luce». Ripeto: «Non vi si pensa quanto sangue costa». Questo verso dantesco (Par. XXIX, 91), che, come gli feci notare in occasione della mia presentazione del Cappotto di Montale, è posto in epigrafe a Uscita di sicurezza e riferito al mestiere della scrittura nella commemorazione che Silone fece di Alvaro, ritorna significativamente nell’opera di Elio.

Già in Dialoghi per non morire era il forte componimento dagli echi lorchiani La ballata dell’impegnodove il poeta, invitato a scegliere, prende su di sé il mantello rosso («Figlio, non tardare/ alla festa di sera, figlio/ quale mantello scegli? // Quello rosso filato/ in una notte, nella notte/ senza luna che mi dicesti: Madre/ guarda queste mani e il mio cuore,/ questo sudore. Sono poeta»). Si pensi poi a Lontano e vicino procedevo su verso il Golgota, in Nell’ampio e nell’altezza: «Ora so quanto costa fermare le parole insanguinate». E ancora si ricordi Non vi si pensa quanto sangue costa, in Gli occhi dell’Universo. E soprattutto Il cappotto di Montale, che si apre con la raccomandazione a un giovane poeta «Ama i versi/ dei poeti che hanno pagato con il sangue/ la salita suprema, dopo la selva oscura e il principio/ dell’anima smarrita» e si chiude con l’affermazione «E tu hai provato quanto sangue/ mi è costato indossare per tutti/ la veste santa di Eusebio», dove il cappotto lasciatogli in eredità da Montale, più che un segno di distinzione e di eleganza, è sentito come una sorta di sudario, un’eredità di sangue, la “certezza” della poesia che si paga col sangue.

Non posso dimenticare il dispiacere che Elio mi confidò di aver provato per un articolo di Guido Ceronetti, su «Tuttolibri» del 16 giugno 1994, dove si proponeva l’immagine del poeta soddisfatto e si affermava che in Fiore «la fede nella parola poetica era perfino più forte della sua fede religiosa». Nell’occasione mi fece avere la lettera di un suo amico, Italo Bosetto, con l’aggiunta del seguente bigliettino: «Caro Sabino, ecco una bella risposta di un vero amico per gli eterni onorati “nuovi credenti”» (è appena il caso di segnalare, in proposito, che lo stesso Elio ha curato nel 2001 una edizione de I nuovi credenti con introduzione di Mario Luzi per le Edizioni Cnsl di Recanati). Per consolarlo gli ricordai che anche a Giorgio Bassani era capitato un incidente del genere, quando Natalia Ginzburg aveva criticato Epitaffio in uno scritto che ora, col titolo La soddisfazione,si può leggere in Vita immaginaria. Ma non era questo che lo interessava, quello che lo feriva veramente era che si potesse pensare che la sua fede nella poesia fosse superiore alla sua fede religiosa, a quella “certezza” religiosa che dà il titolo alla sua conferenza dantesca. Di quanto forte fosse la sua fede, tanto da comprendere in sé anche la fede poetica, è testimonianza la sua scelta di un pensiero dell’amato Leopardi, dedicato a Maria, che volle porre come epigrafe al volume Miryam di Nazarethe che ora si leggedietro il santino di Maria Santissima Consolatrice degli Afflitti che si venera nella chiesa dei Cappuccini a Recanati: «È vero che siamo tutti malvagi, ma non ne godiamo, siamo tanto infelici. È vero che questa vita e questi mali sono brevi e nulli, ma noi pure siam piccoli e ci riescono lunghissimi e insopportabili. Tu che sei già grande e sicura, abbi pietà di tante miserie». Non a caso proprio quel santino, insieme a quella poesia, volle inviarmi da Recanati nell’occasione della morte di mia madre, avvenuta pochi giorni prima della sua stessa morte, a estrema testimonianza della sua sollecitudine d’amore verso tutti i suoi amici letterati, sollecitudine con cui mi piace concludere ricordando alcuni versi de Il cappotto di Montale: «Certo, io non sono più solo,/ posso chiamare Luzi e Ottavio Cecchi/ e l’attento Tommaso Debenedetti./ Posso scrivere a Bo, a Marco Forti,/ e chiamare la dolce Ninon Ungaretti».

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