Fabrizio Coscia
Ancora sul libro di Adelphi

Ossessione Majakovskij

Il romanzo-inchiesta di Serena VItale sul grande poeta russo ruota intorno a una domanda cruciale: perché ci si è ucciso? Delusione politica, delusione poetica o delusione d'amore?

«A tutti. Non incolpate nessuno della mia morte e, per piacere, non fate pettegolezzi». Come farà Cesare Pavese vent’anni dopo («Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi»), il poeta russo Vladimir Majakovskij, prima di spararsi un colpo al cuore, la mattina del 14 aprile 1930, lasciò scritto un biglietto dove chiedeva di evitare le chiacchiere indiscrete. Come se, allo stesso modo del protagonista del Processo di Kafka, la vergogna potesse sopravvivergli. Come se la ridda di supposizioni, i ricami, le voci, le interpretazioni, le calunnie fossero, dopo un suicidio, inevitabili. La richiesta di Majakovskij, infatti, cadde nel vuoto: i pettegolezzi, nel suo caso, si colorirono di giallo, al punto da arrivare a ipotizzare un «suicidio di Stato».

Sulla morte del poeta cubofuturista sono state scritte migliaia di pagine, soprattutto dopo la fine dell’Urss e la sopraggiunta possibilità di consultare documenti di archivio prima inaccessibili: sono usciti saggi, monografie, documentari, spettacoli teatrali, trasmissioni televisive, per non parlare della mole di interventi sul web. A fare un punto sulla questione – in maniera definitiva, si può dire – rimettendo le mani nelle carte d’archivio, nelle testimonianze dei contemporanei, nei giornali d’epoca, nei verbali di polizia, è adesso Serena Vitale con il suo Il defunto odiava i pettegolezzi (Adelphi, pagg. 284, euro 19, clicca qui per leggere, sullo stesso libro, l’intervento di Pier Mario Fasanotti su Succedeoggi), un coinvolgente romanzo-indagine e anche un appassionato omaggio al poeta russo che voleva parlare «ai secoli, alla storia, al creato» coi suoi versi incendiari.

Il defunto odiava i pettegolezziVitale parte da quella fatidica mattina del 14 aprile 1930, a Mosca, quando Majakovskij si spara nella sua minuscola stanzetta della kommunalka di passaggio Lubjanskij, in presenza della sua amante Veronika Polonskaja, detta Nora, la giovane attrice del teatro Mkhat che nell’ultimo messaggio scritto il poeta nominava tra i componenti della sua famiglia, benché regolarmente sposata e fino alla fine indisponibile a lasciare il marito per lui. In effetti, la «famiglia» di cui parla Majakovskij nel biglietto-testamento era alquanto allargata: comprendeva, infatti, oltre alla stessa Nora, alla madre e alle sorelle, anche Lilja Brik, la disinibita scultrice ebrea che fu la musa e il grande amore di Majakovskij, la donna che dominò in maniera possessiva la vita inquieta del poeta. Majakovskij conviveva con lei e il marito Osip nella stessa casa, in un ménage à trois che anche nella Russia comunista del libero amore destava qualche perplessità. La stessa Brik incoraggiava e proteggeva le relazioni di Majakovskij con altre donne, almeno finché queste non occupassero un posto troppo importante nel cuore del poeta, come accadde appunto con la Polonskaja. Nel giorno del suicidio i Brik non erano a Mosca e Majakovskij era in preda a una terribile irrequietezza, dovuta proprio alla sua tempestosa relazione con Nora.

Vitale ripercorre quasi ossessivamente, ma allo stesso tempo con assoluta levità e impeccabile senso del ritmo, quegli ultimi istanti della vita di Majakovskij, dove «non coincidono fatti, parole, luoghi, tempi». Nel libro, come in Rashomon di Kurosawa, ci vengono proposti i troppi volti di una verità sfuggente lasciando spazio ai documenti, ai verbali, ai memoriali, alle deposizioni, alle interviste: le testimonianze si susseguono, montate una dopo l’altra, una sull’altra, una contro l’altra, in un caleidoscopio di voci intervallate di tanto in tanto dai commenti personali dell’autrice, che scava nelle tante contraddizioni, nei punti più opachi di una ricostruzione impossibile. Majakovskij era solo al momento dello sparo? La pistola era una Mauser o una Browning? Fu vero suicidio? Perché la Polonskaja lo abbandonò precipitosamente quella mattina? Che cos’era successo tra loro due nei giorni precedenti? C’entrava qualcosa con la sua morte la polizia segreta sovietica? L’ipotesi dell’omicidio politico del poeta, ormai ripudiato dalla nomenklatura sovietica, che voleva liquidarlo come un inutile reperto del passato ma in realtà era infastidita dal suo perenne ribellismo, fu avanzata anche dal regista Sergej Eisenštein, che scrisse: «Bisognava farlo fuori e lo hanno fatto fuori… Uccidere una persona con le sue stesse mani è la più terribile forma di omicidio, sacrilega e crudele».

E tuttavia Vitale sgombra il campo anche da queste insinuazioni, che reputa infondate, pur sottolineando il clima oppressivo e l’isolamento che si era creato politicamente attorno a Majakovskij. L’autrice è interessata più all’uso politico che di quella morte fu fatto, a quel singolare processo per cui, a un certo punto, con Stalin «il poeta più svillaneggiato della letteratura russa è incoronato Massimo Vate del Primo Paese Socialista» e ancora in seguito con le ricostruzioni agiografiche della sorella, Ljudmila Majakovskaja, si è cercato di imbalsamare e edulcorare una figura di poeta vitalissima e contraddittoria, dalla vita privata per nulla irreprensibile, che fu mal tollerato dallo stesso Lenin. Ma che fosse stata la delusione politica per una Russia che maltrattava sempre di più la «sua» Rivoluzione e che sempre di meno riusciva a sopportare la sua indisponibilità a farsi irreggimentare, a spingerlo al suicidio, o la delusione amorosa per l’ultimo rifiuto di Nora a lasciare il marito, o semplicemente una depressione diventata cronica, resta il mistero di una morte, che è il mistero di tutti i suicidi. «L’attimo in cui un uomo si strappa alla vita – scrive Vitale – è sempre misterioso e inconoscibile, anche se i versi di quell’uomo, poeta, sono attraversati con assiduità da immagini, pensieri di morte volontaria – desiderio o rifiuto, volontà o timore, non lo si può prevedere, tanto meno “spiegare” con operazioni matematiche». Lo aveva scritto, lo stesso Majakovskij: «A nulla serve l’elenco».

Facebooktwitterlinkedin