Pierre Chiartano
Dopo l'attentato dell'Is

La spiaggia di sangue

Viaggio a Sousse, capitale del turismo tunisino "all'occidentale", dopo la strage di stranieri. «Vogliono dividerci, impoverirci e prendere Kairouan». Ma lo Stato tunisino è pronto a questa guerra?

Tunisi. Il treno per Sousse parte dopo le tre del pomeriggio. Circa due ore e mezzo di viaggio, sballottato ma con un climatizzatore che funziona, e arrivo alla stazione della città costiera tunisina, meta di solito di migliaia di turisti. La conta delle vittime della strage portata a termine dal giovane jihadista Seiffedine Rezgui non è aggiornata. Leggo sul mio tablet la Bbc: una trentina di morti sulla spiaggia di al Kantauy. Una collega tunisina mi chiama al cellulare. «Un attentatore è stato ucciso mentre si allontanava dall’albergo con un kalashnikov. Un altro l’hanno arrestato».

Mi butto dentro un taxi. Sousse, città moderna e gradevole mi scorre davanti. Grandi alberghi, locali alla moda, fitness center, ristoranti per tutte le tasche, negozi e negozietti. Non c’è traffico e non solo perché siamo in pieno Ramadan. Manca più di un’ora al termine del digiuno con la cena dell’Iftar. La città è in preda ad una calma apparente. Deserta o quasi. C’è polizia, non più del solito, ma nessuno ci ferma. Sono davanti all’Imperial Marhaba, vedo solo qualche ambulanza e mezzi dei vigili del fuoco locali. Dentro il circo mediatico sta montando le tende. Parabole, gruppi elettrogeni, cavi di tutti i diametri e i primi turisti che fanno le valigie. Qualche faccia di politico conosciuto, venuto a “testimoniare”. Solite lamentele dei colleghi per la mancanza di notizie certe. Siamo in Tunisia.

soussa3L’addetto stampa dell’ambasciata inglese finalmente dà qualche nuova. Sono le 18.30. Le vittime sono 37 (saliranno poi a 39) molti i feriti. Questa volta saranno gli inglesi a pagare un conto salato tra morti e feriti. Non si può entrare nella hall, off limit per i giornalisti, bisogna difendere la privacy di vittime e ospiti.

È sconsolante vedere ripetersi le liturgie di dichiarazioni e doglianze, quando era ampiamente prevedibile che sarebbe cominciata la stagione delle stragi in Tunisia, come avevamo scritto già dopo il massacro del Bardo ma anche in precedenza. Lo diceva la statistica, tunisini sono la maggioranza dei foreign fighter di Stato Islamico. Il tam-tam interno alle fazioni del radicalismo jihadista. Il contesto regionale che vedeva la Libia prendere una china più insidiosa e pericolosa, con Siria e Iraq sempre in bilico. L’Egitto bomba ad orologeria. Sauditi e iraniani sugli scudi per decidere chi avrà in mano le redini della regione del Golfo. Americani con la fregola di togliere le tende per potersi concentrare sul fronte Cina. Europa alla finestra. Tutte le componenti adatte al caos.

soussa4Il governo tunisino non ha il pieno controllo del territorio. Quelli che nel centro del paese vengono considerati dei nascondigli per gli jihadisti, in realtà sono ormai delle roccaforti. In aprile un tentativo di rastrellamento da parte delle forze di sicurezza tunisine sul monte Mghilla – vicino all’abitazione di uno dei due attentatori uccisi al Bardo – nel governatorato di Kasserine, era fallito. Il monte Chaambi, a ridosso della città di Kasserine, pullula ancora di “combattenti”. Lì a un lancio di pietra dall’Algeria, come a Ben Gardane vicino alla Libia, i confini sono estremamente porosi alle infiltrazioni di Stato Islamico e di fighter provenienti dai campi d’addestramento e dai combattimenti in Cirenaica e Tripolitania. Entrano uomini e armi. A poco servono gli schieramenti di forze dichiarati dal governo. I 27mila uomini dell’esercito tunisino e 15mila della Guardia nazionale (come i nostri Carabinieri) non bastano. E non sono addestrati in maniera adeguata. Le forze di sicurezza sono in parte ancora influenzate dal vecchio modello di regime, fatte per un controllo occhiuto dei cittadini non per contrastare veri combattenti. Il fatto che al Bardo siano entrati in azione jihadisti con uno scarso addestramento, o nel caso di Sousse, a quanto sembra, con una preparazione militare quasi nulla, rende il problema ancora più grave. Significa che queste azioni sono servite certamente a dare un affondo “politico” alla fragile neo-democrazia tunisina, ma sicuramente sono state un test per sondare le capacità del governo di difendere i propri interessi, come il turismo (oltre 6 milioni i visitatori stranieri nel 2014 secondo i dati ufficiali).  Ora non si dovrebbero avere più dubbi.

La sera rientro nella medina di Sousse e decido di celebrare l’Iftar in un ristorante all’aperto. Ne avevo notati una serie arrivando dalla stazione, proprio di fronte alle vecchie mura della città. Sono il solo cliente in tutti i 5 o 6 locali che si affacciano sulla piazza. Poche auto, poca gente in giro. Forse sono rimasti a casa. Oggi c’è poco da festeggiare. «Per i prossimi 4 anni turismo kaput» mi dice sconsolato il consierge dell’alberghetto dove sono sceso. Il clima è irreale perché si vede che la città è tarata su grandi numeri. Grandi affluenze. Mangio il bric sconsolato, dopo aver assaggiato la churba, la minestra tradizionale. I tunisini hanno voglia di parlare di sfogarsi. Sono rassegnati, ma cercano disperatamente di trovare elementi d’ottimismo. È difficile trovarli di cattivo umore. «Mushkila kabira» (un grande problema, in arabo) è la frase che sento ripetere più spesso durante le mie chiacchierate estemporanee con tassisti, camerieri, venditori di fiori, anziani seduti nei caffè, poliziotti in sovrappeso, ragazze sempre sorridenti.

soussa2Sousse è sempre stata un passo avanti rispetto alle altre città, ma è vicina a Kairouan. Di lì veniva il “gunner” della spiaggia. Alla moschea di Kairouan era stata dedicata una delle ultime copertine di Dabiq, la rivista di Stato Islamico. È Kairouan che lo jihadismo ultrafondamentalista vorrebbe “liberare” e creare il primo nucleo del califfato in Tunisia. È intorno a quel centro che negli ultimi mesi si sono notati molti movimenti di gruppi armati vicino a colline, montagne e anfratti poco accessibili. Una città che è un simbolo per la tradizione islamica. Qui fu eretta, nel primo secolo del calendario islamico (VII dC), la grande moschea Okba ibn Nafi (che significa Okba figlio di Nafi) che dà il nome anche alla katiba (brigata) jihadista più attiva in zona (già di al Qaeda nel Maghreb, ora di Stato Islamico, a quanto sembra). Il più antico luogo di culto di tutto il Maghreb. Lì nel maggio 2013 ci fu la maldestra esibizione “tette al vento” della presto dimenticata Femen tunisina. Più a nord si trova il Mghilla, ed è una zona di forte reclutamento per le milizie di Stato Islamico e affiliate per Libia, Siria ed Iraq. La città è stata per anni la capitale di Ansar al Sharia Tunisia, che oggi, dopo l’esilio del suo leader in Libia, pare approdata alla corte dell’IS.

Sousse sembra il suo esatto contrario. Legata al presente a uno sviluppo spesso disordinato, figlia della speculazione, ma con qualche elemento di pregio e di efficienza. Molti gli italiani che vi risiedono. Ha dunque un senso che l’abbiano voluta colpire con un’azione a “costo zero” e chiedo scusa per il termine inappropriato visto il fiume di sangue che ha provocato. Una stoccata al governo, un segnale ai tunisini, una vicina ingombrante da “ridimensionare”. Ma ciò che mi ha colpito è stato il commento di un collega tunisino, riferito al giovane terrorista. «Mentre sparava diceva ai tunisini di andarsene. Ora gli stranieri cominceranno a guardare anche noi con sospetto. Vogliono dividerci, seminare l’odio religioso, scardinare ogni integrazione col mondo civile». È difficile sapere quanto sia stata voluta o frutto di uno stato d’animo contingente questa scelta, ma non ci sono dubbi che il pericolo esista. Ancora un altro. Dividere, degradare, scardinare, disarticolare i legami sociali e lo Stato come si usava dire in Italia ai tempi degli “Anni di piombo”. Il governo vuole varare alcune misure restrittive circa scuole coraniche (finanziate da Qatar e Arabia saudita), moschee radicali e partiti come Hizb Ettahrir. Misure tardive perché siamo ormai alla vigilia del confronto “militare”. Inoltre esiste un problema di legittimità popolare del nuovo governo, uscito sicuramente dalle urne, ma che deve ancora dimostrare di volere un cambiamento reale, una cesura col passato, in modo che i tunisini possano sentirlo come il “loro” governo. Vedremo se saprà affondare il bisturi nella piaga della corruzione, una macchina criminale in grado di piegare un governo alle proprie esigenze, violenta e feroce quanto l’IS.

soussa5E per finire, come ciliegina sulla torta, ci voleva anche l’amministrazione americana che si è esibita in un “capolavoro”. Il 15 giugno scorso sono stati segretamente imbarcati su di un aereo all’aeroporto di Bagram due tunisini: Lufti al-Arabi al-Gharisi e Ridha Ahmad al-Najjar. I due sarebbero stati liberati su ordine del Pentagono e consegnati alle autorità di Tunisi che li avrebbero subito messi a piede libero, secondo Tina Foster legale dei due ex detenuti. Ma chi sono costoro? Najjar avrebbe terminato una custodia durata 13 anni, perché, secondo la Cia, sarebbe stato una delle guardie del corpo di Osama bin Laden. Catturato a Karachi nel 2002 sarebbe stato trasferito in Afghanistan in una struttura detentiva segreta conosciuta come Salt Pit (fonte WP). Dove avrebbe subito trattamenti “speciali”. Incattivito al punto giusto. Pronto a rientrare in patria! Poco si sa invece su Gharisi, lasciato nelle mani dei “cavernicoli” della company per 380 giorni prima di essere trasferito in quelle dei militari Usa in Afghanistan.

Siccome non amiamo dietrologie di tipo cospiratorio, precisiamo che riteniamo la mossa, pur “folle”, frutto dell’idiozia burocratica e della bieca necessità politica. Nella fretta di chiudere i file imbarazzanti delle detenzioni “fuori legge” e delle rendition fuori sacco, il Pentagono dovendo anche ridurre il proprio impegno in Afghanistan, ha pensato bene di scaricare queste due castagne ai tunisini. Esperti del settore mi hanno garantito che certe operazioni vengono effettuate qualora ci siano “garanzie” di un certo tipo. Ma la sensazione è che personaggi di questo calibro ci facciano le barchette di carta con le “garanzie”. Ho frequentato molto i quartieri difficili di Tunisi e le zone di confine, patria del reclutamento jihadista e so benissimo quale potere catalizzatore possano avere personaggi di questa caratura. In un momento così delicato per la vita del paese la definirei una mossa “improvvida”, ma penso certamente a un termine più forte.

Ora che la strage di Sousse ha rovesciato definitivamente il tavolo della “costruita” narrativa tunisina, forse più voluta da un ottuso Occidente che dagli stessi cittadini del piccolo paese maghrebino, viene da chiedersi cosa succederà al paese. Visto che è chiaro che il progetto di nuova democrazia poggia su basi piuttosto fragili. Rimane la fiducia nella gente comune, nei tunisini e nel loro buon senso, ma è fondamentale che non vengano lasciati soli in un momento così delicato della loro storia.

Le fotografie sono di Pierre Chiartano

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