Erminia Pellecchia

Elogio del perdente

Felice Levini e H. H. Lim hanno riproposto (e aggiornato) alla Galleria Verrengia di Salerno una performance dedicata ai "turbamenti artistici" della Roma Anni Ottanta

Affogare i rimpianti del passato in caffè e sigarette. Anche se il caffè è senza zucchero, imbevibile, e le sigarette, senza accendino, senza più nuvole di fumo, sono la sfumatura grigia di un rito sociale più volte consumato al tavolino di un bar, tra cazzeggi infiniti sull’arte e la vita. Il bar evocato non è uno qualsiasi, è il Caffè della Pace di Roma, quello spazio avvolgente di ricercata bohéme via dalla pazza folla, la quinta armoniosa del Chiostro del Bramante, la splendida vista sulla chiesa di Santa Maria della Pace a far da cornice ai “cenacoli” spontanei di poeti, artisti ed intellettuali. Qui, negli anni Ottanta, è nata la Transavanguardia di Achille Bonito Oliva; qui, in questa “bottega storica” nazional-popolare ti potevi sedere fianco a fianco con protagonisti dell’arte italiana del secondo dopoguerra come Schifano, Testa, Angeli, Fioroni, De Dominicis. Qui, in questa comunità aperta, i giovani avevano un punto di riferimento, respiravano esperienze fuori dal comune, partecipavano al dibattito, trovavano fonte di energia per dare voce ai propri sogni e corpo alle ambizioni di un domani migliore. Nella galleria Paola Verrengia di Salerno, qualche giorno fa, abbiamo rivissuto, come un dolente flash back, quella stagione indimenticabile di una Roma pervasa da fermenti, rivoluzionaria e vitale, libera e audace: la Roma della fantasia al potere completamente cancellata da questo presente congelato, incapace di progettare il futuro e dimentico della memoria.

A ricreare le atmosfere di allora, in un surreale, psicoanalitico apologo di un mondo perduto, sono stati due reduci di quel periodo sospeso tra realtà e leggenda, due amici da sempre, il romano romano Felice Levini e il cinese H. H. Lim, nato in Malesia ma romano per scelta, da quando, nel 1973, venne a Roma per frequentare l’Accademia e, folgorato d’amore, non l’ha lasciata più. Ospiti dell’atelier salotto, su spinta di Lucia Spadano, critica della rivista Segno, e di Ram Radioartemobile, hanno dato vita alla storia d’ordinaria disperazione “no coffee no cigarettes”, rovesciando il titolo del film cult di Jim Jarmush, Coffee and Cigarettes, Palma d’oro al Festival di Cannes del 1993. Una data emblematica per i due artisti, che proprio nel ’93, improvvisarono, nella variopinta Campo dei Fiori delle bancarelle, dei fricchettoni e dei contestatori, la performance-provocazione-scherzo Il gatto e la volpe, la favola come metafora sull’onda del ciclone Tangentopoli che da poco aveva sconvolto l’Italia e dello show business che stava già infettando il sistema dell’arte.

leonard cohenSulla parete d’angolo della galleria occhieggia quella vecchia foto, loro vestiti appunto da Gatto e Volpe, sorriso mellifluo, intenti a chiedere soldi ai passanti, un cartello invitante «semina subito le quattro monete e in pochi minuti avrai un tesoro». A lato ci sono un tavolino apparecchiato e due sedie. Fa il suo ingresso Levini, magrissimo nella giacca nera di buon taglio, un vintage a cui è affezionato ma che gli calza due taglie in più e gli dà un aspetto macilento. Avanza lentamente, un bicchiere di whisky in mano, si siede mentre la voce roca e sussurrata, simile a un rasoio, del Leonard Cohen di A Thousand Kisses Deep (nella foto), pare dare forma i suoi pensieri: «…ci siamo spinti entro i confini del mare ma non c’erano più oceani per chi come me naviga tra i rifiuti… costretto ora a gestire la tua invincibile sconfitta vivi una vita che sembra vera a mille baci di profondità…». Arreso alla disfatta, senza più maschere, la  sigaretta spenta stretta tra le dita come un talismano a cui appigliarsi benché privo di valore. Lee lo raggiunge, un ciao accennato, si siede, l’attillata camicia di seta nera scoppia sulla pinguedine dell’età che avanza, gli occhiali scuri ben calcati per nascondere le rughe, una tazza di caffè amaro con cui gingillarsi per riempire il silenzio che pesa di parole non dette. Ritrovarsi vent’anni dopo. Spiazzati, spaesati, invecchiati, nello sguardo l’insicurezza di chi naviga a vista e la consapevolezza velata di malinconia di una perdita, del corpo come dell’anima. Niente è più come prima, impossibile cambiare lo stato delle cose, bisogna convivere con la disillusione, isole nell’arcipelago della solitudine. Non c’è bisogno di mettersi a fare conferenze, tra loro, tra gli spettatori, si instaura un dialogo interiore in una dimensione profondamente intimista, delicata, un sentimento di cose sfiorate si muove da cuore a cuore, urla che l’unica esperienza importante per l’uomo è la sconfitta, come suggerisce, nella sua ballata triste, il menestrello di Montreal cantore dei «magnifici perdenti».

Non c’è teatralizzazione in questo duetto muto d’arte e biografia; piuttosto stimolo, coinvolgimento, partecipazione, il recupero della storia, l’analisi sul tempo in mutamento e l’obbligo a confrontarsi con il reale, componendo un manuale di sopravvivenza. Sono strade che si incrociano nuovamente quelle di Levini e Lim, che intersecano i loro percorsi individuali, mettendo in luce relazioni, assonanze e interferenze reciproche. Nel loro porsi di fronte al cortocircuito della società dell’oggi, a un passo dal baratro, avvertono la necessità di trovare altre fonti di energia, di «resistere con quello che fai, decidere dove stare, altrimenti sei fottuto, rischi il fallimento», dicono. Questa mostra “due in uno” si presenta come un viaggio nell’etica dell’uomo moderno alla ricerca di una possibile salvezza. L’arte movimentista, eroica, è uno sbiadito ricordo a cui è assurdo aggrapparsi, occorre incidere sulle coscienze con la leggerezza delle piccole cose che aprono la mente alla riflessione, avverte la coppia di artisti. Alla Verrengia hanno portato alcuni lavori (li ammireremo fino al 25 luglio), li hanno assemblati come una sorta di unica installazione fatta di immagini e di segni-parole dal forte sapore di denuncia sul pianeta preda e vittima dell’economia assassina.

Un grande specchio dalla cornice dorata con l’ironica scritta “Buongiorno” su una giornata che non offrirà nulla di buono; più in là una tavola che simula un assegno con la dicitura “pagare a vista al portatore”, elicotteri in battaglia nei cieli, la faccia di Lincoln, il dio-nemico Rothschild che «da 300 anni controlla le nazioni con la finanza, riducendole a schiave senza onore né dignità, la famiglia mente di un complotto che ha generato, per ultima, la Bce e la mega truffa dell’unità monetaria»; a terra, all’ingresso, uno zerbino d’oro taroccato a forma di lingotto, «calpestalo, ti porterà fortuna» ammicca Lim tornato Gatto indicando l’effimero simbolo della ricchezza che suona vuoto e ingannevole come le casse delle banche. Gli fa eco la Volpe Levini col quadro dove su fondo blu danzano mani di illusionisti-direttori d’orchestra per abbindolare i pinocchi di turno “in un gioco di mani gioco di villani”. Anche lui utilizza la finzione dell’oro, ne fa aste senza più bandiere, ridotte a bastoni per majorette vanesie col pomo stilizzato in figure di lottatori immobili perché non hanno più nulla contro cui lottare, trascinati nel caos come canne al vento. L’artista prediletto da Abo, al pari dell’amico H. H. Lim, suggerisce, però, la via salvifica. La bussola è il dipinto-scultura che raffigura una porta semiaperta da cui si intravede la luce. Sta a te scegliere di varcarla, di superare la soglia tra terra e cielo, inferno e paradiso.

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