Pier Mario Fasanotti
«Ne ammazza più la penna»

È la stampa, bellezza!

Pier Luigi Vercesi, decano della carta stampata, ha raccontato in un libro segreti e leggende del giornalismo: un mondo dove gli eroi dovevano combattere con le armi della fretta e delle parole

Ma chi sono questi giornalisti? Più che una categoria professionale, paiono una sorta di “razza”. Che è stata ed è vituperata, invidiata, considerata come emblema di un ottimo status sociale, una piccola folla sparsa che fa fatica a respingere la sempre più frequente accusa di raccontare bugie, enfatizzare aspetti della società a danno di altri e così via. Vai a spiegare al lettore che il giornalista è la persona che guarda, vede, ascolta, per poi riferire i fatti (e anche le opinioni, proprie e di altri) alla cosiddetta opinione pubblica.

Una vecchia tradizione anglosassone insiste sempre su come dovrebbero comportarsi i reporter: cani che abbaiano contro i soprusi del potere. Non sempre capita così, soprattutto in Italia dove sono pesanti le ingerenze politico-finanziario-industriali. Un intreccio che spesso ha mostrato chiassosamente barchette di carta (o elettroniche) il cui timone viene manovrato da altri: una vergogna, tanto per avvalersi di una brutale sintesi. In ogni caso l’analizzare con visione storica avvenimenti, comportamenti e tic giornalistici ci permette di osservare e capire la società da più angoli di visuale. Ecco perché è interessantissimo, oltreché divertente, leggere il libro Ne ammazza più la penna (Sellerio, 382 pagine, 18 euro) di Pier Luigi Vercesi, da trent’anni autorevole protagonista della carta stampata. Di cose da raccontare ne ha moltissime. Ma lo spazio (il vero incubo di qualsiasi giornalista) è sempre ridotto per riprodurre tante e corrette miniature “di quel mondo”.

Ne ammazza più la pennaSe si parla dei giornalisti è inevitabile parlare anche dei loro tradizionali ritrovi, a parte le sale-stampa dei tribunali (ricordate i vecchi film americani? Ecco, lì c’era un mondo che oggi è quasi completamente scomparso). Il 2 ottobre 1908 è una strana giornata di lutto, a Roma. Chiude i battenti il famoso “Caffè Aragno”. Scriveva Guelfo Civinini: “Come si può immaginare Roma senza l’Aragno?”. Non c’era più Arturo Aragno, il figlio del fondatore di quel caffè che a tutti gli effetti era il Palais Royal dell’intellighenzia italiana dall’Unità d’Italia in avanti. Aragno padre era arrivato a Roma dal Piemonte assieme a “quelli di Porta Pia”, che molti chiamavano i “framassoni”, i “mangiapreti”. Il caffè all’inizio era un modesto locale in via dello Sdrucio, poi occupò le sale del Palazzo Marignoli, in via del Corso. Era il crocevia degli intellettuali. Raccontava ancora Civinini: “Ci sono delle ore destinate all’Aragno che non è possibile passare altrove”.

Dopo la chiusura cronisti e scrittori cominciarono a “ciondolare” per via del Corso. I “vecchi” frequentatori dell’Aragno avevano sempre accennato a quel rifugio come a un “tempio di mestiere”. Ognuno aveva la sua storia da raccontare. Che a volte era sempre la stessa, ad uso di giovani praticanti incantati dalla professione. Regno della “grande vita”, quella che poi Fellini ribattezzò con “la dolce vita”.

Un gran parlare attorno alle fortune e non del teatro dannunziano, ma anche sedie che volavano quando scoppiavano liti tra giolittiani e antigiolittiani. Tra i reporter cominciarono poi a mischiarsi ragazzi che rappresentavano l’«arditismo» ante litteram, i fautori delle parole in libertà. Si definivano futuristi e facevano riferimento a Filippo Tommaso Marinetti, “giovanotto pallido, mingherlino, coi baffetti all’insù, la parola pronta e irruente, e che viveva piacevolmente con suo padre, ricco, avvocato, nella bella casa che (a Milano) faceva angolo tra via Senato e corso Venezia.

Il poeta e scrittore lombardo Carlo Linati così lo ricordava: “Era una specie di viveur intellettuale che si recava sesso a Parigi e andava per le case dei borghesi a recitare poesie di Baudelaire, Verlaine e Mallarmé (che allora molti ignoravano) e alle quali egli veniva aggiungendo qualcuno dei poemi che scriveva in quel tempo, come quel Démon de la Vitesse che gli era stato ispirato dalle prime corse in automobile”. La sua casa era antica e tradizionale, affacciata per un lato su una conca del Naviglio. Quella conca “faceva cascata” proprio sotto le sue finestre riccamente drappeggiate, in stile ottocentesco. Era fuori casa che Marinetti si trasformava in un demone novecentesco. Invasato di modernità, andava in delirio con le automobili. Le stesse “bestie meccaniche” contro le quali tuonava Cesare Lombroso.

Se immediatamente dopo la Liberazione (1945) fu Roma a produrre il più gran numero di testate giornalistiche, poco alla volta l’editoria si concentrò a Milano. Attorno a Mondadori e Rizzoli, di grande ignoranza ma di fantastico fiuto. Il Corriere della Sera, passato successivamente sotto l’ala finanziaria della famiglia Agnelli, era appartenuto ai bigotti fratelli Crespi (Aldo, Mario e Vittorio). Andavano al giornale solitamente il venerdì, ma passavano attraverso una porticina misteriosa di via Moscova, all’angolo con via Solferino. “Quel passaggio” racconta Vercesi, “venne murato negli anni Sessanta, quasi a rappresentare la fine di un’epoca. La società era cambiata e a osservarla bene, in quella finta metropoli ci mandavano una ragazza lombarda di buona famiglia, Camilla Cederna” (nella foto accanto al titolo). La quale aveva cercato di sedurre il grande Dino Buzzati. Senza riuscirvi però. L’autore de Il deserto dei tartari, la cui fortezza Bastiani era la personificazione pietrosa del Corriere, la respinse dicendole chiaramente di non potersi innamorare di una come lei: “gli avevano inculcato” riferisce Vercesi “che il sesso è peccato e lo si può solo fare con le peccatrici, donne a pagamento”.

Camilla, approdò all’Europeo (nato il 4 novembre ’45), testata per la quale fecero lavorare anche un geniale e bizzarro viareggino come Giancarlo Fusco. Questi, abituato a vestir male e a dormire sotto le barche di Viareggio, si presentò senza denti, a causa del pugilato praticato nella foresta del Tombolo. Fu una colletta dei colleghi a fornirgli una dentiera. In quegli anni Quaranta, Milano non era ancora la città delle feste. La gente-bene e le dame ricche si ritrovavano soprattutto nei foyer dei teatri. E tutte si tenevano alla larga da quella pettegola di Camilla. Ma la fantasiosa, ed annoiata, giornalista, si vendicò una sera al Teatro Nuovo (in scena c’era Strano interludio di Eugene O’Neill) e cominciò a parlare della contessa Raoul Pellettier de Belminy, che la sera prima aveva inaugurato la sua nuova casa di via Brera, tappezzata con quadri di Pablo Picasso e Maurice Utrillo. La nobildonna, riferiva la Cederna, aveva un marito in India e si era innamorata dei “milanesi, gai come tutti i meridionali”.

Scattò la curiosità e tutti a chiedere di quella misteriosa presenza a una divertita Cederna. Il gioco durò abbastanza a lungo, quando ci fu poi l’annuncio che la contessa era stata costretta a raggiungere una clinica svizzera perché necessitava di cure. La Cederna fornì un particolare stuzzicante: “Ha preso troppo freddo durante una caccia alla tigre, a Bombay”. Annota Vercesi: “Ecco, questa Milano inventata, a volte un po’ cialtrona, era la bengodi del giornalista”. Mentre a un centinaio di chilometri, ossia a Torino, l’avvocato Giovanni Agnelli sosteneva, o voleva far credere, di leggere solo l’Equipe, il giornale sportivo francese.

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