Domenico Calcaterra
Ancora su «Cade la terra»

Metafisica di Alento

Alento è il borgo/universo nel quale Carmen Pellegrino ha allestito la sua recita degli abbandoni e degli inseguimenti: un luogo reale e immaginario allo stesso tempo che diventa metafora del vivere

È un romanzo che gode di tutti i benefici dell’anacronismo, Cade la terra (giunti, 220 pagine, 14 euro), atteso esordio dell’abbandonologa Carmen Pellegrino (lo ricorda anche Andrea Di Consoli, nella quarta di copertina, gli orologi «non sempre indicano l’ora esatta»), già recensito (clicca qui) da Succedeoggi. Anacronistico per l’incurante giungere libero da tutti gli abusatissimi must più in voga (primo fra tutti l’insopportabile neutralità di scrittura che si presume stile) per quel fondere, magistralmente, dimensione orizzontale e dimensione verticale, dato geografico e incunaboli di microstoria, lo stato in luogo e il dato antropologico e corale; nella tessitura di un romanzo che si lascia apprezzare per la non meno speciale caratura di un realismo metafisico (in tal senso la dicono lunga i rimandi montaliani presenti nel libro).

Alento – «una malora che aveva le montagne da tutte le parti» – è un immaginario ma verosimile paese semiabbandonato (come tanti in Italia), destinato giorno dopo giorno a franare e dove «la vita continuava come poteva». Qui, entrata giovanissima in monastero e scappata nottetempo dopo appena due anni, fa ritorno l’allora diciottenne protagonista, Estella. Dopo aver letto un annuncio, riesce a trovare lavoro, come istitutrice dell’inquieto Marcello, in casa de Paolis: Estella rimarrà guardiana della casa, trasformandola in un «piccolo mondo autistico» nel quale coltivare l’antico «gioco della memoria» e della confidenza con ciò che è morto e che, pur tuttavia, resiste. Rimanere in compagnia dei morti sarà il suo progetto: si dedicherà, una parola alla volta, a rievocare la storia di Alento e degli alentesi. Le loro storie di ordinaria “esclusione”, le loro «vite dissipate, trascorse senza gridi, senza gesti» (tratto verghiano): a destare quei “morti” e quei “vinti” di cui parla Alfonso Gatto in Amore della vita (puntualmente citata in esergo dall’autrice). E che la lezione dei poeti abbia avuto un ruolo decisivo nella costruzione di questo romanzo, lo palesa la stessa Pellegrino, nella Nota posta in coda al libro. Oltre a quella della famiglia de Paolis, troviamo raccontate storie di madri e di padri, di figlie e di figli, di miserie e attese, di destini infranti, di naufragate speranze (straordinario, tra gli altri, il personaggio di Giacinto, il banditore del paese che per tutta la vita attende un salario e un berretto).

carmen pellegrino cade la terraÈ evidente come Carmen Pellegrino abbia voluto tradurre in romanzo il suo modo alternativo di considerare, di “abitare” le rovine: non più mero spazio (romantico) di contemplazione dell’inutile, ma concreto «invito alla resistenza». Alento, con le sue case abbandonate, diventa teatro sì in disfacimento, ma pure scenario del possibile, luogo dove gli sconfitti dalla vita e dalla storia possono alimentare nuove attese. A incarnare una simile disposizione, vero e proprio correlativo oggettivo di questa poetica di resistenza, il monumentale olmo fracassone «dal sonno insonne» sito al centro della piazza del paese che credeva, ci dice Estella, nella gioia di darsi, «felice com’è di farlo, perché solo ciò che non si dà muore».

Colpisce, nel romanzo, l’ossessione dell’incontro con i morti, dell’abitare la “soglia”, appunto, tra vita e morte – «nessuno fra i morti se ne va completamente, così come fra i vivi nessuno ci sarà mai del tutto» –, assai presente (a voler tacere il macroscopico caso a parte di Antonio Moresco) in non pochi esordienti: penso, per dirne una, alla «Sicilia texana» messa in scena in Lo Scuru da Orazio Labbate (Tunuè, 2014), racconto ancor più metafisico, non meno identitario, e di radicata antropologia (oltre che di infuocata invenzione linguistica). Vi è poi un secondo e niente affatto trascurabile aspetto, diciamo così di ordine filosofico: la verità (mai così evidente) di un tempo dedotto a principiare dallo spazio, d’una memoria che origina dal luogo (dato peraltro già rilevato anche a proposito di Dettato di Sergio Peter, altro cristallino esordio).

Di Consoli nel risvolto rispolvera una precisa e illustre tradizione, quella della grande letteratura meridionale novecentesca. Epperò mi pare che Cade la terra di Carmen Pellegrino non solo rinnovi, ma oltrepassi il filone della letteratura meridionalista, rendendo limitativa qualsivoglia necessità d’identificazione e di etichetta; per un racconto totale di una realtà e di una sostanza che mai quanto oggi sembra tendere, con rinnovato interesse, all’universale.

domenico.calcaterra@gmail.com

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