Opere da tutto il mondo fino al 19 luglio
Il sapere di Leonardo
Imperdibile mostra a Palazzo Reale di Milano, omaggio della città dell’Expo al più grande artista che la abitò e la amò. Dal “Paesaggio, 5 agosto 1473” a un disegno della serie dei “Diluvi”, l’alfa e l’omega di un percorso intellettuale
Leonardo da Vinci fece e rifece il suo dipinto più famoso, La Gioconda, dal 1503 al 1515-‘16. Vale a dire da quando aveva cinquant’anni alla vigilia della morte, datata 1519. Oltre due lustri, durante i quali procedette il suo impegno di scienziato, di curioso della natura. E infatti La Gioconda tanto intriga e ha intrigato chi la osserva da cinque secoli perché è un compendio dello scibile leonardesco: vi confluiscono gli studi sul lume (la luce artificiale e non), l’aria grossa (quella più vicina al suolo, dunque più pregna di umidità e tale da modificare la visione dell’occhio e della prospettiva), lo sfumato, l’azione dell’acqua, l’eruzione delle cose, il rilievo, i moti dell’animo. Il tutto trasposto in pittura, che per lui era – tramite l’osservazione – l’equivalente della scienza.
Il Leonardo speculatore, ossessionato dalla interpretazione del mondo è il protagonista della imperdibile mostra a Palazzo Reale di Milano, omaggio della città dell’Expo al più grande artista che la abitò e la amò, al punto da voler replicare in un terreno regalatogli nel 1490 da Ludovico il Moro uno dei vigneti conosciuti nella natia Toscana (leggi https://www.succedeoggi.it/wordpress2015/03/vigna-leonardo/). Una rassegna che con duecento opere provenienti da tutto il mondo è la più grande mai dedicatagli. Di più, sfuggendo al déjà vu di un Leonardo genio dei geni, come in quella ideologicamente apologetica del 1939, e invece puntando sul suo percorso intellettuale. L’impostazione è limpidamente indicata nei saggi del Catalogo Skira – l’editrice ha peraltro favorito l’intera operazione culturale – e nel titolo stesso del prezioso volume e della rassegna: Leonardo 1452-1519. Il disegno del mondo (fino al 19 luglio). In specie nell’intervento introduttivo, firmato dai curatori Pietro Marani e Maria Teresa Fiorio. Per l’allievo del Verrocchio, ricordano, la pittura è la «sola imitatrice di tutte le opere evidenti in natura». E questa identità di arte e scienza – come Leonardo dice nel Trattato della Pittura, 1490-1492 – altro non è che un aspetto dell’unitarietà del mondo, governato dalle medesime leggi, sia che si tratti della fisica che della medicina, dell’architettura, dell’idraulica. Convinzione “illuministica”, nel senso che Leonardo crede di poter dominare il sapere, proprio perché riconducibile a un unicum. Negli anni fiorentini prospettiva e disegno si configurano come scienza. Più tardi i disegni nei quali si esercita a sezionare il corpo umano oppure un’architettura o il progetto di una macchina per volare sono la dimostrazione di un medesimo approccio. Nel Codice Atlantico parlerà di “medico architetto” oppure di “cupola del cranio”, sovrapponendo due ambiti. Paragonerà i fiumi alle vene. Penserà che lo sfregamento degli organi vitali possa tradursi – nel disegno – in passaggio dal tratteggio per linee parallele a quello curvilineo.
Leonardo era un aristotelico. Terra, fuoco, aria, acqua erano per lui gli elementi fondamentali. In tensione continua, anelando all’inarrivabile quiete. La scienza è studio di questo moto perpetuo, l’acqua il quid più dinamico. Ecco allora inverarsi queste riflessioni – raccolte in mucchi di taccuini, ai quali negli ultimi anni tenta di dar ordine ma senza portare a termine l’impresa – nei dipinti e nei disegni. A Palazzo Reale sono organizzati in dieci sezioni, che danno conto, oltre che del Disegno e del Paesaggio visto come scienza, del Paragone tra le arti (scultura, ma anche tutti gli artigianati, come aveva imparato negli anni giovanili a bottega), del Paragone con gli Antichi, dell’Anatomia e moti dell’animo, di Invenzione e Meccanica, del Sogno (quello del volo e del movimento sott’acqua), della Realtà e dell’Utopia, dell’Unità del Sapere… E mai come ora comprendiamo che cosa c’è, per esempio, dietro il foglio intitolato La Scapiliata (dalla Galleria Nazionale di Parma): quel movimento di riccioli replica le volute di un gorgo. Oppure nel Giovanni Battista prestato dal Louvre (gli altri due gioielli dal museo parigino sono la Belle Ferronière e la Piccola Annunciazione): il santo emerge come galleggiando dal buio, in un’analisi sottilissima degli effetti luminosi, i suoi capelli rimandano ai Codici in mostra nei quali il pittore suggerisce di osservare «il moto del vello dell’acqua il quale fa a uso de’ capelli che hanno due moti». Un saggio di anatomia e di perizia tridimensionale è il San Gerolamo della Pinacoteca Vaticana, uno studio di ritratto e di fisiognomica il Musico della Pinacoteca Ambrosiana rapportato ai volti icastici di Antonello da Messina (Ritratto d’uomo, da Cefalù) e di Giovanni Bellini (Poeta laureato, da Milano). Le Gallerie dell’Accademia di Venezia hanno prestato il celeberrimo Uomo vitruviano. La National Gallery of Art di Washington la Madonna Dreyfus. E dalla collezione della Regina Elisabetta II giungono trenta disegni autografi: Leonardo indaga sugli strati del cuoio capelluto così come sulla zampa anteriore di un cavallo o ancora su un fiume che scorre tra le rocce.
Già, il leit motiv dell’acqua, sia in brume che velano montagne, sia nel moto confuso con terra, fronde, aria. Lo ritroviamo in due opere che i curatori definiscono l’alfa e l’omega dell’esposizione. Da una parte il Paesaggio, 5 agosto 1473 degli Uffizi, che, pur con diversi punti di fuga è «tutto impostato sulla visione prospettica fiorentina e su una concezione dello spazio misurato». Dall’altra pure un disegno, ma del 1517-1518 circa conservato a Windsor e facente parte della serie dei Diluvi. Qui «un cataclisma provoca la caduta di montagne con vortici di polvere, fumo e acqua e mostra in Leonardo un radicale cambiamento di concezione nell’affrontare la rappresentazione della natura e dei fenomeni naturali». È un da Vinci che, «partito dalla fiducia nella natura e dalla consapevolezza di possedere gli strumenti idonei per la sua rappresentazione», dopo cinquant’anni è preda di «una visione catastrofica e pessimistica in cui l’uomo non ha più controllo degli elementi naturali ed è costretto a soggiacervi…». Aveva scritto l’artista non molti anni prima (Codice Arundel, 1505-1510): «Siccome ogni regno in sé diviso è disfatto, così ogni ingegno diviso in diversi studi si confonde e si indebolisce». Alla fine dei suoi giorni, l’umanista toscano riconosce come impossibile l’unità del sapere. E teme il caos: nell’intelletto, nella natura, nella politica.