Gianni Cerasuolo
Trent'anni passati inutilmente

Heysel, la strage rimossa

Nella notte del 29 maggio 1985 si consumò un dramma che ancora dà fastidio. La vera Coppa andrebbe data al cinismo, al disimpegno e soprattutto al mancato rispetto per il dolore

Il massacro dell’Heysel viene “commemorato” ogni domenica nei nostri stadi così: «Ti ricordi lo stadio Heysel/ le bandiere del Liverpool/ diecimila sono partiti/ 39 non tornan più…». Lo cantano un po’ di canaglie della curva Fiesole, a Firenze, base musicale il vecchio brano di Marcella Bella, Montagne verdi. Anche quelli del Torino si esibiscono su queste note. A Roma, invece, molti farabutti della sponda giallorossa sono più rockettari e preferiscono Vasco di Cosa succede in città? E allora si attacca con: «Cosa succede?/ Cosa succede a Bruxelles?/ Cosa succede all’Heysel?/ Guarda qui, guarda lì/ son trentanove e son tutti sottoterra…».

La carneficina dello stadio Heysel (accadde a Bruxelles 30 anni fa, il 29 maggio 1985, finale di Coppa Campioni tra Juventus e Liverpool, 39 morti, 32 italiani) offre da sempre spunti per l’idiozia da stadio. Una strage rimossa, un ricordo che infastidisce come succede per altre storie drammatiche collettive che hanno segnato il nostro paese. Come se le vittime della “partita della morte” appartenessero solo ad un tifoseria, al club più amato e detestato. E non a tutta la nazione. Sono andato a guardare le regioni di provenienza dei 32 morti ed ho contato: 7 venivano dalla Lombardia, 4 dal Piemonte e dalla Toscana, 3 dal Veneto e dalla Sardegna, 2 dall’Abruzzo, dalla Sicilia e dalla Puglia e 1 rispettivamente dal Friuli, dall’Umbria, dal Lazio, dalla Liguria e dall’Emilia (le altre 7 vittime: 3 erano residenti in Belgio, 3 in Francia e 1 era irlandese). Alcuni erano originari del Sud, come Luciano Rocco Papaluca che veniva da Grotteria, in provincia di Reggio Calabria. Un paio forse non erano nemmeno tifosi juventini ma interisti che avevano seguito in Belgio i loro amici di fede bianconera. Insomma, un mosaico dell’Italia come da sempre si caratterizza il tifo per la Juve.

heysel2A trent’anni di distanza bisogna, invece, ancora ascoltare offese di ogni genere per quei poveri morti. L’esecuzione delle “montagne verdi” è stata fatta da una parte della Fiesole appena nello scorso aprile quando Fiorentina e Juve si sono affrontate nella semifinale di ritorno della Coppa Italia. Poi coro chiama coro, così come striscione segue a striscione. Durante la partita con il Napoli allo Juventus Stadium si ricordano i morti dell’Heysel ma, per mantenersi in allenamento, si cantano anche ritornelli contro i napoletani. Se quelli del Toro inneggiano al Liverpool, quelli della Juve rispondono sbeffeggiando la sciagura di Superga. E gli altri ricordano il “volo” di Pessotto e, in risposta, quegli altri se la prendono con Facchetti. I napoletani promettono vendetta per Ciro Esposito e i romanisti espongono striscioni offensivi contro la madre del ragazzo: una spirale che alimenta l’odio e la vergogna.

L’Heysel non ci ha insegnato quasi nulla. Abbiamo contato altri morti, altri feriti, gli ultimi nel derby di Roma di lunedì. La violenza continua. Altrove, in Inghilterra, hanno cercato di arginarla, di contenerla, di punirla dopo l’Heysel e la strage di Sheffield, quella avvenuta quattro anni dopo la finale tra Juve e Liverpool (96 morti tra i supporters dei Reds, a Hillsborough un altro stadio in rovina e altri tragici errori di organizzazione). Margaret Thatcher usò ogni mezzo, come aveva fatto per reprimere gli scioperi nelle miniere e il terrorismo dell’Ira. Ma l’hooliganismo è stato reso impotente non solo con la repressione. C’è stata anche una ribellione di chi voleva tifare e godersi una partita di pallone.

heysel3Da noi, no. Roberto Beccantini, ex firma della Stampa, uno dei migliori giornalisti sportivi, ha scritto nell’introduzione alla nuova edizione del libro di Francesco Caremani Heysel. La verità di una strage annunciata, (BradipoLibri), uscito dodici anni fa ed ora riedito in occasione del trentennale del terribile fatto: «Era il 2003 quando uscì il libro. Il 2 febbraio 2010 abbiamo celebrato, in sordina, il terzo anniversario dell’uccisione dell’ispettore Raciti… Siamo il paese degli slogan (“tolleranza zero”), dei tornelli, delle tessere del tifoso e dei tifosi con le tessere. Siamo quelli che un nero non può essere italiano, riferito a Mario Balotelli; siamo quelli che “Opti Poba è venuto qui che prima mangiava le banane”… Siamo quelli che mai più un altro Ciro Esposito… Siamo quelli, sempre quelli». Aggiungo: siamo quelli del «non si può sempre pensare di dare soldi a queste quattro lesbiche», quelli che hanno consegnato il calcio di periferia in mano alle mafie, quelli che si spartiscono la tv del pallone probabilmente in maniera fraudolenta. Tanto per completare un quadro decadente e incivile.

Del resto, l’Heysel fu dimenticato già qualche ora dopo il massacro. Fu cancellato da quell’esultanza fuori luogo di Platini dopo aver messo a segno il rigore inesistente che consegnò la Coppa alla squadra diretta da Giovanni Trapattoni. Da quel giro di campo festoso degli juventini mentre oltre il muro dello stadio maledetto erano stesi i corpi dei tifosi uccisi dalla furia degli hoolingans e i lamenti dei feriti (oltre 600) erano ancora alti. Dai caroselli dei tifosi a Torino nella notte, nonostante fosse ormai noto il tragico bilancio della finale. Dai silenzi e dalle omissioni della stessa società torinese che ha scelto, almeno negli anni passati, di parlare il meno possibile di quella drammatica serata. Non è un caso che tra il club e l’Associazione fra le famiglie delle vittime di Bruxelles i rapporti siano stati spesso tesi, al limite della rottura. Adesso, con la presidenza di Andrea Agnelli le cose sono cambiate. Allo Juventus Stadium ci sono 39 “stelle” con i nomi delle vittime e una parte dello “J Museum” è dedicato a quei morti.  Ma anche per questo trentennale non sono mancate le frizioni. Quelli dell’Associazione volevano che venisse rappresentato un testo teatrale, alla Juve non è piaciuto, è stato modificato, i familiari delle vittime hanno dato l’ok ma hanno fatto sapere anche che parteciperanno soltanto alla messa in ricordo dei loro morti: «Quello sarà l’unico momento condiviso con il club bianconero» hanno scritto in un comunicato pubblicato da “Arezzo Notizie”.

heysel5La città toscana ebbe due giovani uccisi: Roberto Lorentini, 31 anni, un medico, un uomo generoso che rimase  travolto dalla furia degli hooligans mentre cercava di soccorrere qualcuno, con ogni probabilità un bambino sardo, Andrea Casula, 11 anni, la più giovane vita sacrificata in quel massacro. Per quel gesto Lorentini ebbe la medaglia d’argento al valor civile («d’argento e non d’oro, così lo Stato risparmiò una piccola pensione…» accusava il padre, Otello). L’altra vittima aretina si chiamava Giuseppina Conti detta Giusy, una ragazza di 17 anni. Otello Lorentini, scomparso lo scorso anno ad 89 anni, ha impiegato metà della sua vita a combattere una battaglia difficile e spesso solitaria affinché i colpevoli venissero puniti e non si dimenticassero i 39. «La Juve non si è mai fatta viva» si lamentava spesso. Aggiungendo: «Boniperti non ci ama… Tre giorni dopo la catastrofe disse che si doveva mettere una pietra sopra l’accaduto. Evidentemente, l’intenzione della Juventus era di stendere un velo sui fatti dell’Heysel, in modo da salvare il famoso “stile Juve” che io non ho mai condiviso». Il genitore vide scomparire all’improvviso il figlio Roberto che era accanto a lui nel famigerato settore Z dell’Heysel. Quando lo ritrovò «mi sembrava che gli battesse ancora il cuore, invece era la mia tempia che martellava sul suo petto». Fu Otello a fondare l’Associazione e fu lui con la sua tenacia a sconfiggere in appello la protervia dell’Uefa che l’aveva passata liscia nel primo processo in Belgio. L’Uefa fu costretta a pagare dei risarcimenti ai superstiti e si vide condannare il segretario generale, Hans Bangerter, a tre mesi con la condizionale. Una pena mite ma quello fu il riconoscimento della responsabilità dell’organizzazione calcistica, sebbene il presidente, che allora era Jacques Georges, venisse assolto.

Nei processi in Belgio, impostati e condotti male dalla pubblica accusa, alla fine hanno pagato i pesci piccoli. Ci furono gravissime responsabilità per quello che successe da parte dell’organizzazione locale. Lo stadio cadeva a pezzi. Gli hooligans – guidati da un ex parà (l’ex portiere del Liverpool, Bruce Grobbelar ha detto a Repubblica che quel giorno a Bruxelles c’era gente del National Front, l’estrema destra inglese, venuta da Londra, che scatenò l’assalto e poi scomparve: dovevano fare casino e mettere in cattiva luce quelli di Liverpool, che molti odiavano, secondo lui) – “caricarono” i tifosi della Juve rompendo pezzi di gradinata che si sbriciolava come pasta frolla e lanciandoli verso il Block Z. Quelli di fede bianconera non dovevano stare in quel settore, destinato ai belgi o a spettatori neutrali, però i biglietti  furono venduti anche da agenzie italiane e da club juventini e provenivano probabilmente dal mercato nero. Le forze di polizia erano presenti in maniera ridicola: 7-8 poliziotti a dividere gli inglesi dagli italiani in quella parte dello stadio dove era stata eretta una rete inadeguata («tipo tennis» dissero molti testimoni). I walkie talkie degli agenti non funzionavano perché le pile erano scariche; incapaci e mal diretti, quei poliziotti furono capaci di infliggere solo manganellate ai pochi tifosi italiani che riuscirono a mettersi in salvo sul prato mentre il muro della curva Z crollava. Il ministro degli Interni, che si guardò bene dal dimettersi, il sindaco, il capo della polizia non furono toccati; venne condannato un capitano: pochi mesi con la condizionale. Pesci piccoli. Accade sempre così, anche da noi. Su YouTube, ci sono pochi frammenti che riprendono la polizia a cavallo mentre fa il suo ingresso nel piccolo stadio a passo di parata, dopo che i morti già si contavano a decine. Tragicamente comici. Mentre intorno c’era gente che si disperava, persone moribonde, corpi che venivano adagiati confusamente su barelle improvvisate con le recinzioni in ferro. Altri che venivano portati a spalla, come si fa con i quarti di bue. Nel civile Belgio, sede della Comunità europea, furono talmente cinici, in quella occasione, che anche con i morti si comportarono malissimo. Lo denunciò Lorentini, lo scrissero i giornali italiani. Le autopsie furono eseguite in maniera sommaria, molti corpi, mutilati orrendamente, non vennero ricuciti e furono riconsegnati in condizioni pietose ai familiari. In qualche caso le bare portavano nomi sbagliati; delle vittime furono scambiate con altre: «Non eravamo pagati per gli straordinari», fu la risposta fredda e impudente di certi medici di Bruxelles. «L’Italia ci mise fretta per la riconsegna dei cadaveri», fu la versione ufficiale. I nostri magistrati chiesero la riesumazione dei corpi. Lo ricordava, commuovendosi, Lorentini nel libro di Caremani. Soltanto da poco, i belgi hanno riconosciuto i loro errori e hanno reso omaggio ai morti. I pochi inglesi condannati se la cavarono con qualche anno di galera mai scontato.

heysel6Show must go one. Forse quella volta lo spettacolo dovette continuare per scongiurare il peggio: la vendetta degli italiani, dei Fighters, gli ultrà juventini, che si agitavano minacciosi già prima degli assalti inglesi. Si temeva anche qualche altra pazzia dei tifosi dei Reds, ubriachi dalla testa ai piedi. «Giochiamo per voi» disse Scirea ai microfoni dello stadio. D’altro canto il calcio non si è fermato nemmeno l’11 settembre 2001: la sera stessa dell’attacco alle Torri Gemelle si scese in campo per la Champions, all’Olimpico andò in scena Roma-Real Madrid. Poi il giorno dopo l’Uefa ci ripensò e sospese le partite, rossa di vergogna.

Bruno Pizzul durante una telecronaca surreale – che gli fu a lungo rimproverata ma quella sera tutta l’informazione Rai fu sbagliata – fece in tv una premessa prima dell’inizio della partita, ore 21,40: «Consentitemi di non definirla finale di Champions, è che si gioca una semplice partita per motivi di ordine pubblico».

All’Heysel molti juventini non volevano scendere in campo, lo stesso Giampiero Boniperti, allora presidente bianconero, andò dai capi dell’Uefa a dire: «Prendo la squadra e la riporto a casa». E quelli gli risposero, secondo la testimonianza di Francesco Morini, ex difensore e all’epoca ds bianconero: «Allora vi assumerete la responsabilità degli incidenti e su di lei ricadrà la colpa di quello che può succedere». Edoardo Agnelli, il figlio dell’Avvocato presente negli spogliatoi, esclamò: «Incredibile, si gioca». Giocarono, la Juve vinse 1-0 e si assicurò la Coppa che gli era sfuggita da troppo tempo. La Coppa venne mostrata come il più bello dei trofei il giorno dopo sulla scaletta dell’aereo atterrato a Caselle. Bettino Craxi, che era presidente del Consiglio, disse chiaro e tondo che quella partita non andava giocata. Ancora oggi la tifoseria juventina è combattuta su quella vittoria sporca di sangue. Trapattoni si è espresso recentemente: «Restituiamo la Coppa all’Uefa». E così anche qualche giocatore, Tardelli ad esempio. Andrea Agnelli, che al tempo dell’Heysel aveva dieci anni, nel venticinquennale della strage ha sottolineato: «È una Coppa che facciamo fatica a sentire nostra». Mario Soldati pochi giorni dopo quel 29 maggio disse a Repubblica: «La Juve si è comportata in maniera perfetta. Chi condanna il tripudio dei giocatori … dimentica che loro non potevano conoscere l’esatta dimensione del dramma … Non mi vergogno di aver gioito per quella vittoria. Erano anni che noi juventini la aspettavamo… È assurdo pensare di restituire il trofeo… Sarebbe come punire la Juventus…».  Di altro parere Italo Calvino che, intervistato dallo stesso quotidiano, ammise, pur non essendo tifoso juventino: «Da principio anch’io ho provato una naturale soddisfazione per lo smacco sportivo – almeno quello – subito dai tifosi di Liverpool. La gioiosa scorribanda dei giocatori per il campo, però, mi è sembrata inopportuna. Di fronte a una tragedia di quella portata, ciò è risultato disumano». Calvino non voleva che si disputasse la finale. «Rifare la partita? Restituire la Coppa? No, non sono molto sensibile a questi simbolismi» (i pareri di Soldati e Calvino li ho trovati leggendo Quella notte all’Heysel di Emilio Targia, uscito da poco in libreria per Sperling & Kupfer. Targia rivela un particolare non da poco: sul biglietto di ingresso allo stadio Heysel che lui ancora conserva e che si procurò con un amico direttamente dal Belgio c’è una scritta in francese in cui l’Uefa avvertiva che declinava ogni responsabilità in caso di incidenti. Da non credere: l’Uefa che allestiva l’evento si lavava le mani per qualsiasi cosa fosse successa…).

heysel4Otello Lorentini, tifoso bianconero come il figlio Roberto, aveva le idee chiare in proposito. Rivelò che quando vide la Juve che faceva il giro d’onore con la Coppa «mi è venuto da vomitare… sono rimasto impressionato vederli scendere dall’aereo come se avessero vinto il mondo, quando “quella cosa là” grondava ancora sangue. Quella visione mi ha dato veramente fastidio, non ho mai potuto digerire quelle immagini. Dico di più, considero vergognoso che ancora oggi nelle statistiche e negli almanacchi la Coppa dei Campioni 1985 si consideri vinta dalla Juventus, quando la dovrebbero restituire… come si fa a parlare di Coppa vinta?».

Michel Platini non ha mai voluto parlare volentieri di quella notte e dell’atteggiamento suo e della squadra. Lo ha fatto una sola volta, aprendosi un pochino di più, in una intervista incrociata con Marguerite Duras su Liberation, due anni dopo la tragedia: «Per prima cosa non avevamo visto l’orrore. È come quando dicono: si è schiantato un aereo, trentasette morti, duecento morti… Non si vede niente. Bene, dopo si prende lo stesso l’aereo… E quando sei in campo, quando si pensa al calcio, che è la nostra passione, la nostra giovinezza, la nostra adolescenza, non si può pensare mentre si gioca che ci sono stati tanti morti. Quando realizzo il rigore sono felice, in fin dei conti il calcio mi salva dall’infelicità umana… Quel giorno sono diventato un uomo! Diciamo che sono passato da un mondo in cui il calcio era un gioco a un mondo in cui il calcio è diventato una specie di violenza. In altre parole, fino ad un certo momento hai dei giocattoli. Be’, quel giorno non avevo più giocattoli. Ero diventato un uomo> (da Le Heysel. Une tragédie européenne di Jean-Philippe Leclaire, 2005, edito in Italia da Piemme). Nelle ore successive al massacro, le Roi Michel usò altre parole, atroci: «Al circo quando muore il trapezista entrano i clown in pista. Noi non siamo dei clown, ma il discorso è lo stesso…».

Infatti, quella dell’Heysel fu una macabra recita.

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