Pier Mario Fasanotti 
Consigli per gli acquisti

Dio era un fumatore

Intelligenza, ironia, logica, comicità, provocazione nelle 22 riflessioni di Ermanno Cavazzoni. Milano al tempo dell'Expo è lo spunto della raccolta di racconti edita per l'occasione da Sellerio. Poi le pagine documentatissime di Scurati dedicate a Leone Ginzburg

L’errore – Miscelate intelligenza, ironia, logica, comicità, provocazione: ecco il profilo di uno dei più arguti scrittori, Ermanno Cavazzoni. Ha riunito in un libro 22 riflessioni che non sono veri e propri racconti, ma possono essere letti come tali. O, se volete, come elzeviri (Il pensatore solitario, Guanda, 172 pagine, 15 euro). Tra i più sorprendenti è quello che s’intitola “L’errore universale”. Si parla di un Dio sbadato, fumatore e sonnacchioso, che ha fatto uno sbaglio enorme, circa 15 miliardi di anni fa. Si è assopito con la sigaretta in bocca, questa è cascata e ha fatto esplodere una bombola di gas, che era vicino a lui.

CavazzoniMa perché c’era una bombola in quel silenzioso nulla? «L’ipotesi più accreditata – scrive il narratore emiliano – è che gli universi fossero due, in uno c’era Dio che fumava, nell’altro c’era una bombola». Interferenza tra due universi, o meglio “fluttuazione quantistica”. Immane esplosione. L’errore è continuato nel tempo: la Terra è stata lanciata a velocità folle, ma il sole l’ha attirata a sé. Conseguenza: ci siamo noi e un numero infinito di bellezze geografiche. All’inizio stavamo bene, «dopo cena niente televisione perché i fatti erano pochi, non c’erano partiti e quindi nemmeno dibattiti elettorali». E non avevamo «quell’orribile istituzione che sarà il week end, di cui già Leopardi diceva che è un’illusione malefica (“diman tristezza e noia…”». Poi un continuo peggioramento. Rimedio. Per Cavazzoni: «…dall’errore impariamo a cavarci il bene possibile, come dicevano gli stoici, la più giusta ed erronea delle filosofie».

 

MilanoExpo – Continua la deliziosa abitudine della Sellerio di pubblicare collezioni di racconti. L’astuzia che ci sta dietro è quella di scegliere temi che hanno a che vedere o con ricorrenze (Natale, Pasqua, Carnevale, Estate, ecc.) o con scenari attuali come la crisi economica o – è questo che la casa editrice siciliana propone ora – Milano (200 pagine, 13 euro) in occasione dell’Esposizione Universale. Racconti taglienti di Giorgio Fontana, Helena Janeczek, Paolo Di Stefano, Marco Balzano e Francesco M. Cataluccio. Vorrei parlare di tutti, anche solo con brevi cenni, ma lo spazio non lo consente. Mi ha particolarmente colpito il racconto di Cataluccio, il quale, in “La stazione”, narra l’arrivo alla Stazione Centrale (Proust sosteneva che le stazioni contengono l’essenza della personalità cittadina) di un certo Daniel Fajnachen, con un gatto che tiene stretto a sé. È un siriano di Aleppo ma di origine polacca, cinquantenne cupo che veste di nero. Si è laureato in architettura, nel nostro paese. In Italia, dopo un lungo e travagliatissimo viaggio, sbarca non sopportando più la violenza e il fanatismo siriano. Daniel e il gatto Simeone «attraversano in diagonale l’enorme cattedrale babilonese della stazione: colossale e gelido tempio pagano». La prima volta che la vide si era nel 1988. Nota una grande folla sulla gradinata, «come il palcoscenico di un’angosciosa discesa nel nulla». Osserva un uomo agonizzante, ignorato da tutti. Si guarda attorno e invece dei variopinti passeggeri vede soltanto altri clandestini, amari barboni, tossici barcollanti, grasse prostitute di colore, saltellanti bambini lesti nel borseggio. E poi volontari che regalano fazzoletti e altro agli sfortunati in transito per il Nord Europa. Daniel viene fermato dalla polizia e poi rilasciato. In poco tempo si trova in un’altra parte della città, vicino all’Ortomercato, «un’enorme area di degrado gestita da una società municipalizzata». Cataluccio non usa perifrasi: «Quella periferia di Milano è il lembo marginale di una città diventata in un ventennio gaglioffa e scurrile: una deserta ferialità che si trasmette all’intero universo urbano». Tornato attorno alla stazione nota disgustato Ortolino e Macedonia, «miserevoli imitazioni dei ritratti dell’Arcimboldo». Simboli di pessimo gusto dell’Expo. E poi il faccione della mascotte dell’Esposizione, Foody: «Nella città, capitale mondiale del design, è stato scelto come simbolo un pastrocchio». Ritrova uno straniero poco prima conosciuto, che ha rubato due bottiglie di buon vino. Lo bevono vicino salone del Memoriale della Shoa. Daniel pensa ai suoi avi paterni (ebrei), «uomini pii e indaffarati». Il siriano piange, poi intona una nenia.

 

ScuratiGinzburg – Un uomo perbene era Leone Ginzburg, co-fondatore (in pratica) della Einaudi e poi marito della scrittrice Natalia. Antonio Scurati gli dedica pagine documentatissime, scritte con linguaggio sobrio, lontano sempre dalle tentazioni dell’enfasi, in Il tempo migliore della nostra vita, Bompiani, 270 pagine, 18 euro). Ginzburg come esempio di uomo onesto, dalla morale e dall’etica che non prevedono scorciatoie, piccole furbizie, opportunismi di sorta. Uno con la schiena diritta, come si dice oggi: il timore è che siano una minoranza, ormai. La ricostruzione biografica di Scurati inizia quando si trova per le mani la lettera del ventiquatreenne Leone, libero docente di letteratura russa. Nella lettera esprime il suo “no” all’invito (si fa per dire) del regime fascista che “gradiva” il giuramento di fedeltà politica. Perse il posto, ovviamente. La sua era ed è sempre rimasta, fino alla morte in carcere, sotto tortura, la linea della fermezza. Una tranquilla fermezza. Lo testimoniano anche quel che lasciò di sé, della sua poliedrica personalità culturale, al liceo torinese Massimo D’Azelio. Personaggi come Antonicelli, Bobbio, Pavese, Mila e Giulio Einandi lo consideravano “un genio precoce”. Proveniva da una famiglia russa (commercianti) che si trasferì a Odessa nel 1919, in netto contrasto (anzi vessati) con il leninismo-marxismo dell’Urss. Comincerà a scrivere racconti e articoli per giornali. Instaura un saldo legame di amicizia con Cesare Pavese. A Parigi, dove si era recato per completare la sua tesi su Maupassant, incontra la famiglia Rosselli e Gaetano Salvemini. Studiare soltanto, capisce che non basta. Entra nelle fila di “Giustizia e Libertà”. Einaudi gli propone di lavorare in casa editrice. Aveva una cultura strabiliante e sosteneva che «è antifascismo anche fare dell’ottima filologia. Il suo dilemma fu stare quieto, chino sulle carte oppure impegnarsi, anche, nell’azione contro Mussolini. Scelse quest’ultima strada, che lo porta in galera. Liberato dopo l’8 settembre fonda il giornale Italia Libera, lavora a stretto contatto, a Roma, con Giaime Pintor. Dopo tredici numeri del suo foglio politico venne nuovamente arrestato. A Pertini, in prigione, dirà poco prima di morire: «Non bisognerà odiare i tedeschi, dopo». Ricordando la frase di Benedetto Croce: «Si desidera ancora credere in un avvenire umano».

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