Anna Camaiti Hostert
Cartolina dagli Usa

Renzisti d’America

Il New York Times tesse l'elogio di Matteo Renzi («a metà tra Tony Blair e Bill Clinton») e racconta la «rivoluzione italiana». Dimenticando di dire che la corruzione ci uccide

In una recente intervista al New York Times, Matteo Renzi viene descritto come il «Rottamatore (Demolition Man) che  vorrebbe rovesciare una leadership ormai abbarbicata trasformandola in un mucchio di rifiuti – una presa diposizione  che trova il favore delle giovani generazioni  affamate di nuove opportunità». Definito dal giornalista del quotidiano americano, Jim Yardley, a metà tra Tony Blair e Bill Clinton – proprio in virtù delle sue caratteristiche di uomo del cambiamento e della sua giovane età messa in rilievo come elemento portante della novità italiana soprattutto in funzione del fatto che in generale i leader di questo paese sono sempre stati, ad essere eufemistici, attempati – Renzi ne esce davvero come un gigante. «Per l’Italia questo è un momento di decisioni – afferma il leader –. E io sono il leader più giovane che questo paese abbia mai avuto. Sto usando la mia energia e il mio dinamismo per cambiare il paese. Penso sia arrivato il momento di scrivere una nuova pagina per l’Italia».

Viene inoltre presentato come quello che ha imposto nuove sfide all’Europa. Tra di esse, l’adozione del quantitative easing come prova di un cambiamento politico significativo. «È importante sottolineare la nuova direzione dell’Europa», afferma Renzi che si attribuisce il merito di aver sottolineato la necessità di discostarsi unicamente dalla discussione sui bilanci e sull’austerità. E aggiunge: «Abbiamo un’identità, sogni, speranze e una strategia», dicendo di essere colui che finalmente si pone il problema della disoccupazione giovanile. Descritto come «un misto di grande energia, versato nella comunicazione pubblica e manovratore politico senza scrupoli» gli viene attribuito il merito di voler rinnovare il paese cercando di distruggere «un sistema politico ossificato e di voler ricostruire il paese per le nuove generazioni». E ancora come quello che riesce a rinnovare il suo partito, il Partito Democratico.

Il giornalista americano, infatti, riporta la citazione di Renzi ripresa da Tony Blair che disse a proposito del Partito Laburista: «Il rischio è quello di trasformarlo da un partito che perde sempre in uno che vince». E quando gli viene chiesto quale sia l’identità della sinistra in Italia, lui risponde: «È quella di dare più diritti ai giovani e maggiori possibilità alle nuove generazioni. In Italia avevamo un apartheid del lavoro. Il Job Act è la cosa più di sinistra che abbia mai fatto». Senza approfondire troppo sul dissenso del sindacato e della minoranza interna allo stesso Partito Democratico proprio a proposito di questo specifico provvedimento, il giornalista afferma che Renzi è in assoluto il politico più popolare adesso in Italia in mezzo al declino di Berlusconi e al populismo del Movimento 5 stelle, dimenticando tuttavia che ambedue ancora possiedono un consistente favore popolare.

Renzi, inoltre, sempre per il New York Times, è colui che ha semplificato la fatiscente struttura politica italiana, eliminando una Camera e facendo del Senato «un corpo più delocalizzato e non invece il cimitero di ogni legislazione», semplificando così enormemente  l’iter legislativo. In conclusione, per Yardley il programma di Renzi è «enorme per un paese dove la politica è stata spesso caratterizzata da un’immobilità totale. I suoi sostenitori – continua il giornalista – dicono che Renzi sia l’ultima chance per il paese e lo lodano perché si confronta con privilegi ormai sedimentati. Ma i suoi critici lo descrivono come autoritario». Senza specificare che oltre ad essere Primo Ministro, Renzi è anche segretario del Partito Democratico che guida la coalizione governativa, il giornalista, a difesa del garantismo e della democraticità del premier, scrive che egli stesso ha proposto la necessità di un termine limite alla carica di presidente del Consiglio.

Tutto questo potrebbe anche andare bene se l’unico desiderio del grande quotidiano newyorkese fosse quello di voler aiutare un alleato in difficoltà. Viene tuttavia da dubitare che questo sia l’obiettivo del giornale quando non si legge neanche una parola sul tema della corruzione nel nostro paese. Infatti, ormai non passa giorno che non ci sia uno scandalo nelle amministrazioni locali o nelle grandi opere pubbliche da nord a sud e da sud a nord.

In realtà, solo una dura battaglia alla corruzione ci permetterebbe di uscire da una situazione disastrosa in cui la disoccupazione giovanile si sta avviando verso il 50% e in cui solo pochi investitori esteri sono disposti a scommettere su di noi. E anche riflettendo sul fatto che non si può immaginare da parte di un paese anglosassone un livello di corruzione pari a quello raggiunto da noi, si dovrebbero comunque informare i lettori americani di come stanno le cose. Invece nessuna parola su questo tema. L’unico vero motivo per cui l’Italia non ce la fa a riprendersi è che nessuno seriamente combatte questo cancro. O se lo si fa, lo si fa male. Tutti i provvedimenti legislativi e l’energia di un premier giovane non possono andare da nessuna parte se non si comincia a mettere mano a questo problema. Dal basso. E allora si dovrebbe dire che questo è anche il motivo per cui paesi come l’Italia e la Grecia affetti da grande evasione fiscale e da enormi debiti pubblici nei confronti dell’Europa, devono questi problemi proprio alla loro corruzione. E che la grande disoccupazione giovanile esiste, perché nel paese non c’è mobilità, non c’è ricambio occupazionale proprio in quanto i ricchi e potenti “raccomandano” i propri accoliti, amici, fratelli, sorelle, amanti etc. Non si è assunti per meriti, ma per «conoscenze».  E che i partiti, tutti, compreso quello democratico, sono corrotti e sono divenuti bande di affaristi. Che la riforma del Senato invece di semplificare l’iter legislativo aumenterà le diseguaglianze tra politici dello stesso tipo. Ci saranno infatti semplicemente disparità di potere che andranno a vantaggio di quegli amministratori locali che avranno la fortuna di sedere in Senato e che, a differenza dei loro colleghi a cui non sarà consentito questo privilegio, avranno dunque più possibilità di elargire favori e di riceverne in cambio altri. Che è un modo per stimolare la corruzione. Che aggrava e allo stesso tempo provoca la crisi.

Viene fatto di chiedersi allora come mai il grande quotidiano americano non sollevi questo tema di vitale importanza. Perché, se è vero che dopo la crisi del 2008 l’America si sta rimettendo in piedi anche grazie alle riforme del giovane ed energetico presidente Obama, è anche vero che gli americani sono cittadini che hanno il senso dei doveri civici, pagano le tasse da sempre e sono fortemente attaccati al loro radici e alla loro storia. E questo fa la differenza. È un problema di identità di un paese, della sua compattezza, dei suoi principi di legalità. Allora quella del quotidiano americano è semplicemente una tattica in buona fede che testimonia il desiderio dell’America di dare un aiuto immediato a un alleato di vitale importanza da cui è divisa da una profonda differenza di radici culturali o invece una strategia politica di più lunga gittata di cui non conosciamo ancora gli obiettivi?

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